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giovedì 22 maggio 2014

IL GIOCO DEL RAGNO CAPITOLO 30













                                                      30

Ripresi i sensi quando le mie narici si riempirono di fumo dovuto a qualcosa che stava bruciando. Fu in quel momento che mi ritrovai sopra le spalle di un uomo, sentivo i passi di altri uomini correre. Piano piano la mia vista si stava abituando alla luce, non mi rendevo conto di dove fossi, l’uomo mi distese su un prato vicino all’edificio e mi intimò di non muovermi che stava arrivando un’autoambulanza con un medico. Finalmente riuscivo a respirare, il naso si liberò del fumo che avevo respirato prima e inalai aria fresca. Provai ad alzarmi, mi girava la testa, mi toccai la tempia sinistra, c’era del sangue raggrumato sulla pelle, la ferita era ancora aperta, mi faceva male solamente a sfiorarla, la giacca era tutta sporca di sangue e cenere. Poi guardai l’edificio in fiamme, era la canonica.
Ora ricordavo, padre Tusa, l’aggressione “Ma che fine ha fatto? Cosa è successo?” ricordavo fino alla botta, a qualche metro da me c’era l’autocisterna dei pompieri, l’uomo che mi aveva tirato fuori di lì doveva essere uno di loro. Mi misi in piedi, ma la testa mi girava, stavo per cadere quando due mani mi sorressero tenendomi per le spalle.
-Venga con me, si appoggi. –
Questa voce mi sembrava di riconoscerla, stordito e barcollante mi aggrappai a quell’uomo, mi sorreggeva e mi guidava verso una macchina, mi aprì la portiera e mi sistemò dentro, fece il giro dell’auto e si mise alla guida, ora potevo vederlo bene in faccia era l’ingegnere Ciro Lo Vecchio.
-Ma cosa ci fa qua? – gli chiesi, chiudendo gli occhi per il dolore che provavo a causa della ferita in testa.
-Aveva ragione, sono in pericolo. E a quanto vedo, lei lo è pure almeno quanto me. Sono stato minacciato, ho ricevuto un messaggio anonimo che mi diceva di presentarmi oggi in questa chiesa. Quando sono arrivato ho visto le fiamme, e poi lei disteso per terra. –Tenevo sempre gli occhi chiusi, il dolore era forte, la luce esterna mi dava fastidio, sentivo la sua voce, ma non riuscivo a ricordare quello che era successo, “E’ stato quel maledetto prete a combinare questo casino” stavo rimettendo a fuoco la situazione.
-Dove stiamo andando? – mi sforzai di chiedere.
-In una mia villetta sopra Monreale, lì starà al sicuro, io dovrò tornare a casa, ho paura per la mia famiglia. Ma domani dovremo agire. –
Accennai di si col capo, poi poggiai la testa al finestrino e mi addormentai.
L’ingegnere mi svegliò quando arrivammo alla sua villetta, mi sorresse fino al cancelletto che dava sul giardino, poi cercai di camminare autonomamente. L’abitazione si sviluppava su due piani, una scala portava al piano superiore dove c’era l’entrata principale, sul piano terra invece si entrava dal basso tramite una porta che si affacciava sul giardino. Aprì quest’ultima porta ed entrammo in una sorte di salottino, mi sdraiai su un comodo divano, Lo Vecchio salì al piano di sopra tramite una scala interna, scese dopo un paio di minuti con un plaid e una scatola di primo soccorso. Mi bendò la ferita.
-Per fortuna non è profonda e si è quasi rimarginata, però domani la dobbiamo fare vedere ad un medico, ora sarebbe troppo pericoloso muoversi, devo tornare dalla mia famiglia e andare alla polizia. Ho troppa paura se quel matto faccia del male ai miei cari. –
-Non si preoccupi, sto meglio, ora mi addormento subito qui sul divano, lei vada. –
-Ha il cellulare? Mi può dare il suo numero? – chiese.
Gli detti il mio numero, poi si raccomandò di non muovermi, che sarebbe tornato l’indomani mattina sul presto. Mi lasciò solo, mi distesi sul divano e tentai di prendere sonno.
Mi addormentai e svegliai diverse volte, il dolore alla testa e l’adrenalina dovuta a ciò che mi era capitato non mi fecero chiudere occhio, poi quella casa vuota ed estranea anziché rasserenarmi mi metteva angoscia. Mi alzai dal divano, avevo deciso di tornare a casa mia, “L’ingegnere mi ha detto che siamo sopra Monreale, certo la distanza c’è, forse non ho nemmeno le forze necessarie per tornare a casa, ma se rimango qui impazzisco”.
Tentai di aprire la porta che dava sul giardino, ma era chiusa a chiave, salì allora al piano superiore, l’appartamento era piccolo infatti trovai la porta d’ingresso facilmente. “Merda! È chiusa. Dovrei uscire da una finestra”, mi accorsi però che accanto alla porta d’ingresso c’era un mobiletto e su di esso un grosso posacenere che conteneva una chiave, poteva essere una copia della chiave d’ingresso, provai e la porta si aprì. Finalmente respiravo aria fresca, la casa godeva di un bel panorama, ai suoi piedi si stendevano le luci di Monreale e di Palermo, scesi i gradini che portavano al giardino, scavalcai il cancelletto e mi ritrovai sulla stradina che collegava una serie di villette a schiera tutte uguali a quella dell’ingegnere, questa stradina confluiva alla strada provinciale che collegava Monreale con Giacalone. Imboccai la direzione di Monreale, questa mi avrebbe riportato a Palermo. Costeggiai un cimitero, si sentiva ogni tanto il latrato di qualche cane randagio, l’umidità della notte mi trapanava le ossa, indossavo solamente la giacca sporca di sangue e cenere, ricordavo di aver lasciato il cappotto in macchina prima di entrare in chiesa, era stata una giornata calda. Camminare mi aiutava a riflettere, ed era la prima volta dall’aggressione da parte di padre Tusa che ripensavo al racconto fattomi dal prete.
“Così era figlio di una prostituta e di un prete. Il prete forse era perseguitato o preso in giro da alcuni suoi alunni, una sera questi lo seguono fino a casa della prostituta, scoppia la rissa, e ci rimangono secchi entrambi i genitori, in più si sviluppa un incendio che ne brucia la casa, come confermato dal racconto che mi avevano detto quei vecchi incontrati alla Kalsa. Il bambino scappa e si infila a San Giuseppe dei Teatini, dove trova padre Pintacura che lo accoglie, lo fa studiare e cerca di aiutarlo. Il bambino si fa adulto, da un lato pensa di farsi prete, forse ispirato dalla figura di Pintacura e di affidare la sua vita a Dio, dall’altro lato invece, più passano gli anni più è curioso di conoscere gli assassini di suo padre, si mette sulle loro traccia, comincia a spiarli e l’odio verso di loro, fino a quel momento sopito, riemerge e si va accrescendo. Decide di prendere i voti, sperando che la scelta potesse cancellare questo odio che covava, ma si rende conto che non era stata una scelta giusta. Si sente privato della sua vita, e la colpa era di quei ragazzi ormai uomini. Diventa un ossessionato, li spia ogni giorno, la sera su una agenda annota quello che avevano fatto. È indeciso se ricattarli con le foto che aveva scattato la sera dell’omicidio dei genitori o di vendicarsi uccidendoli. Dopo anni decide di ricattarli, si fa vivo con loro, forse mandandogli una lettere anonima, li minaccia che se non si fossero presentati a Piazza Pretoria forse li avrebbe denunciati? O forse che sarebbe passato alle vie di fatto in qualche modo. La notte del quattordici di Novembre si presenta il solo Vincenzo Leone, a quel punto forse impazzisce del tutto e lo ammazza, inizia così ad ucciderli tutti uno alla volta. Adesso manca solamente Ciro Lo Vecchio e dopo di lui toccherà anche a me”.
Ero arrivato a costeggiare il paese di Monreale, sentì rintoccare le campane di una vicina chiesa, erano cinque rintocchi, la strada provinciale cominciava ad animarsi, macchine e furgoncini mi passavano accanto sempre più frequentemente.
“È inutile chiedere un passaggio, in queste condizioni dubito che qualcuno si fermi” sostai davanti ad una fontanella, appena iniziò ad albeggiare ripresi la marcia.
“Si tratta della storia di un povero diavolo degenerata in tragedia. Ma la follia è riuscita a portarlo ad uccidere anche l’uomo che lo aveva accolto? Perché ha ucciso padre Pintacura? E quei simboli che lasciava sui corpi delle vittime? Quella frase in latino? Che significato aveva tutto questo?  Un uomo che pagava colpe di altri, di mio padre di mia madre e di quei quattro ragazzi, così si era definito Tusa.” Cominciavo a ricordare parti del discorso che mi aveva fatto prima di aggredirmi. “Mi ero procurato un arma.. e poi .. Questa doveva essere l’arma con la quale mi sarei fatto giustizia..” rabbrividivo al pensiero di quella pistola così lucida, che non aveva mai sparato un colpo probabilmente, quell’uomo dall’aspetto così mite, sembrava un gigante buono. “Così la mano del diavolo fu veloce, e avevo davanti ai miei occhi ciò che per anni avevo solamente desiderato, ancora agonizzante..  staccai il crocifisso e glielo conficcai dentro lo squarcio che aveva sullo stomaco.. Il mio odio travolse una persona che amavo.. padre Pintacura.”
La strada provinciale si aveva preso il nome di corso Calatafimi, la lunga via che da sotto Monreale giunge fino a Piazza indipendenza per poi proseguire col nome di Corso Vittorio Emanuele fino a Porta Felice e quindi al mare. Erano le sette e mezzo circa, le fermate degli autobus erano piene di studenti semiaddormentati, avevo un’emicrania che mi partiva dall’occhio e mi pulsava nelle tempie. “C’è ancora qualcosa che non capisco, perché ha ucciso anche Pintacura? Qualcosa mi sfugge..”

Alle nove giunsi a casa, fui accolto dalle feste di Chimay “Hai ragione, ma non puoi immaginare che giornata ho passato ieri”. Mi buttai sfinito sul divano del salotto e senza nemmeno avere il tempo di fare altro, crollai in un sonno profondo.

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