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La porzione di lasagne
davanti a me sembrava più un mattoncino di lego estratto dalla scatola che un
manicaretto uscito da un forno a microonde. Seduto, da solo, in fondo alla sala
della tavola calda, più che mangiare analizzavo la struttura delle lasagne
“Perfette.. potrebbero funzionare bene come fondamenta per un palazzo”.
La tavola calda era quella
di fronte l’ufficio postale dove lavoravo, lo stesso luogo dove io e Serena ci
incontrammo appena saputa la morte di De Felice. Serena mi mancava, mi mancava
la quotidianità che avevamo ormai costruito insieme, mi mancava la sua risata,
le sue attenzioni nei miei riguardi.
Mi sentivo solo, avevo deciso
di raggiungerla a Barcellona. A giugno avrei chiesto il congedo e una volta
definite e chiuse le pratiche a settembre mi sarei trasferito. Certo avrei
lasciato tante certezze per qualcosa di incerto. La mia amica mi informò che
aveva trovato un appartamento in città nel quartiere di Gracia, la casa era
piccola ma accogliente, il quartiere vivace, e godeva anche del panorama della
città grazie ad un piccolo terrazzino. Mi descriveva in termini entusiasmanti ogni
cosa che vedeva, che notava. Si sentiva viva. Aveva anche visionato un ufficio
che lei e la sua amica cercavano per iniziare l’attività. Il suo entusiasmo era
contagioso, così anch’io pian piano cominciavo ad immaginare la mia futura vita
in Spagna. E quando ci pensavo provavo una sensazione di libertà.. “Tutto cambierà..”.
Ero assorto nei miei
pensieri quando sentii squillare il telefonino, svogliatamente infilai una mano
in tasca e lo estrassi, il display luminoso mi avvertiva che era Domenico.
-Pronto? Domenico dimmi. –
lo anticipai.
-Andrea ciao! Tutto bene? –
La voce di Domenico era
piuttosto rauca.
-Bene, tu invece? Che voce
rauca che hai, sei raffreddato? Più tardi dovremmo avvicinare in chiesa, per la
riunione finale. –
-E infatti per questo che
ti chiamo.. Andrea, ho la febbre alta. Non posso esserci alla riunione. Tu però
non dire niente a Serena quando la sentirai, si preoccuperebbe inutilmente. –
-Non ti preoccupare, non le
dirò niente. Cerca di rimetterti. –
-Andrea, ti volevo chiedere
se puoi andarci lo stesso alla riunione, ti fai vedere, gli dici al prete che
sto male. Tanto è un incontro che serve più che altro per i padrini e madrine.
Mi dispiace di non poter essere presente, ma mia zia non mi farebbe uscire mai
con questa febbre. –
-Non ti preoccupare, ci
avvicino, la cresima quando dovrebbe essere? –
-La settimana prossima.
Grazie allora, ricordati l’incontro è dalle cinque in poi. –
-Va bene – lo rassicurai –
appena terminerò di lavorare mi recherò in chiesa. Tu guarisci presto. –
-Grazie ancora, stasera ti
chiamerò per sapere come è andata. –
-Va bene, mi farò sentire
io, non preoccuparti. –
Domenico sentiva la
mancanza della sorella, anche se era a casa degli zii, aveva nostalgia della
vita nel palazzo. Si era fatto degli amici, e godeva di maggior libertà, mentre
ora era tenuto d’occhio dagli zii. Era
contento, di questo cambiamento. Serena gli aveva parlato benissimo della città
gli aveva descritto la bellissima spiaggia di Barcelloneta, il mercato della
Boqueria, aveva promesso di fargli visitare il Camp Nou, il mitico stadio dove
gioca il Barcellona, era riuscito a strapparle la promessa di andare a vedere
una partita, gli aveva parlato della sua futura scuola, descrivendogli
dettagliatamente tutte le strutture che possedeva. Lui come me, era in attesa
di questo cambiamento.
Ma prima di ogni cosa ci
sarebbe stata la cresima, sarebbe stata tra una settimana.
Da quando si era lasciato
con la sua fidanzatina, il suo entusiasmo era scemato.
Dovevo incontrare il prete,
l’avevo visto solo una volta, lo stesso pomeriggio che incontrai per la prima
volta l’ingegnere Lo Vecchio. Dopo il lavoro, mi sarei diretto in chiesa,
sperando che non sarebbe stata una cosa lunga.
Giunsi con una mezz’ora di
ritardo all’appuntamento, trovai davanti l’ingresso della sagrestia un
gruppetto di genitori che attendevano la fine dell’ora di catechismo dei loro
figli. Entrai dentro e mi imbattei nella figura imponente di padre Tusa. La sua
corporatura massiccia, cozzava col gruppo di ragazzini che aveva intorno.
Seppur la sua figura, quel corpo così massiccio, la testa piena di ricci e la
barba folta, imponevano un po’ di soggezione, i bambini non ne risentivano
proprio. Infatti c’era una gran confusione. Mi avvicinai a lui e provai a farmi
sentire.
-Padre, buonasera, sono
Andrea Restivo, il futuro padrino di Domenico. Mi scusi per il ritardo. Vengo
direttamente dal lavoro. Domenico non è potuto venire perché ha la febbre. –
Il prete, mi sorrise, aveva
la fronte sudata.
-Non si preoccupi. Le
ruberò solo un minuto, però prima faccio uscire questi ragazzi. Oggi la signora
che si occupa del catechismo si è assentata, così mi sono dovuto occupare io
dei bambini. Venga mi aspetti qui nello studio, e già che c’è mi può fare un
favore? –
Non mi diede il tempo di
rispondere che mi ritrovai seduto su di una sedia del suo studio di lato alla
scrivania.
-Mi può tenere d’occhio
Mariolino? I suoi genitori dovrebbero arrivare da un momento all’altro a
prenderlo. Ora faccio uscire i ragazzi, saluto i genitori e torno subito. –
Chiuse la porta e mi lasciò
solo con Mariolino, quell’uomo cominciava a farmi compassione, non lo invidiavo
affatto, come faceva a rimanere calmo con tutti quei bambini urlanti. Era
proprio un gigante buono.
La mia presenza non riuscì
a frenare Mariolino, correva da un capo all’altro della stanza, poi si sedette
sulla poltrona della scrivania e cominciò ad aprire la carpetta e a tirare
fuori le carte che c’erano dentro.
-Mario, stai buono sono
cose del prete, non si toccano! – Cercai di bloccarlo, ma lui continuava a
rovistare indifferente tra le carte di Tusa.
“E’ proprio un diavolo!”
-Mario, ma quanti anni hai?
–
Il bambino senza degnarmi
di uno sguardo mi fece sette con le dita.
“Ma non è piccolo per fare
catechismo? Ma poi per questo bambino più che il
catechismo ci vorrebbe un
esorcista!”
-Ma non sei piccolino per
fare catechismo? –
Il bambino questa volta mi
mostrò solamente un dito.. il medio. “Bene, molto educato”.
Una volta terminato di
buttare fuori tutte le carte dalla carpetta, il bambino scese dalla poltrona e
si concentrò su un cassetto della scrivania. Trovando opposizione alla sua
apertura, ci riprovò con tutte le sue forze. Il risultato di tale sforzo fu che
cadde all’indietro per terra sbattendo il sedere, trascinandosi il cassetto che
rovinò sul pavimento. Per fortuna il cassetto non gli cadde sulle gambe, il
bambino si mise a piangere più per lo spavento che per la botta. Mi avvicinai e
lo aiutai ad alzarsi. In quel momento entrò il prete, aprì appena la porta
rimanendo fuori.
-Mariolino, vieni ci sono i
tuoi che ti aspettano, tuo fratello è già fuori. – Il bambino smise d’incanto
di piangere e corse verso il prete.
Poi si rivolse a me –
Ancora un attimo e arrivo. Mi scusi per l’attesa. –
Rimasi solo col disastro
che aveva combinato il piccolo Mario.
Cercai di risistemare il
cassetto. Mi piegai e cominciai a raccattare le carte, santini, agende, vari
fogli, la tessera sanitaria dove c’era riportato il suo nome.
“Michelangelo Tusa” lessi.
“Povero Michelangelo, come fa a badare a tutti questi bambini”.
Continuai a sistemare riponendo
tutto dentro il cassetto, avevo quasi finito, presi una busta grande, fui
maldestro, la busta mi scivolò dalle mani, cadde a terra facendo uscire il suo
contenuto. Erano delle foto alcune in bianco e nero altre a colori. Mi chinai
un'altra volta, quelle foto mi sembravano conoscenti..
“Non ci posso credere! Ma è
uno scherzo?! E’ una persecuzione!”. Le foto raffiguravano Lo Vecchio,
Tommasini, De Felice e Leone. Alcune di queste somigliavano a quelle che avevo
visto a casa di Tommasini. Altre invece li immortalavano mentre erano vicino ad
altre persone, forse familiari, in una riconobbi la moglie di Leone, in
un'altra era stata scattata a Ciro Lo Vecchio mentre teneva una lezione
all’università. Le foto erano a centinaia, mi ero imbattuto in una sorta di
catalogo fotografico che riassumeva gran parte della vita dei quattro uomini.
Provai un brivido, le gambe mi cominciarono a tremare.
“O sono dentro un incubo o
sono fottuto, questo prete come fa ad avere tutto questo materiale su di loro!
Non è possibile, sarebbe una coincidenza troppo grossa. Ma cosa poteva legarlo
a loro?”.
Presi una delle agende che
avevo posato dentro il cassetto, era del 1970, l’aprii in mezzo, dentro erano
riportate una serie di date e un commento sotto ogni data, le pagine erano
tutte scritte in maniera molto fitta. Lessi una che riportava la data del 1980:
Palermo, martedì 10
Dicembre 1980:
Oggi in mattinata ho
seguito una lezione di Lo vecchio, odio la sua boria, poi nel pomeriggio ho
pedinato Carlo era a passeggio con la
moglie, lui si gode l’affetto di sua moglie io il rancore e il dolore che mi
hanno causato.
Continuai leggendo il
commento del giorno seguente.
Palermo, mercoledì 11
Dicembre 1980:
Odio quel pallone
gonfiato di Ciro Lo Vecchio, appena ha finito la lezione, sono rimasto in aula,
lo vedevo sistemare le sue cose dentro la borsa. Eravamo rimasti solo io e lui.
Non mi riconosce e mi fa col suo fare da borioso “Lei che ci fa ancora in aula?
Anziché sprecare il suo tempo perché non va a casa a studiare, o se non ce la
fa, pensi ad andare a lavorare”. Sarebbe stato il momento ideale per ucciderlo.
Lo avrei strangolato con le mie stesse mani. Ma forse l’amore che ho verso il
Signore lo ha salvato. Solo Lui mi può salvare.
Andai avanti con le pagine
lessi una nota a caso:
Palermo, mercoledì 12
Marzo 1986:
Quel maiale di Pasquale
De Felice vuole fare il salto della quaglia, ha fatto domanda per insegnare
all’università. Loro pensano di affermarsi sulle ceneri della mia vita.
L’agenda era piena di
queste annotazioni e date, avevano come soggetti i quattro uomini, era una
sorta di diario personale che riportava i pensieri di Michelangelo Tusa dal
1970 al 1986. Anche le altre due agende erano fitte di date e annotazioni come
quella che avevo appena aperto. Stavo sfogliando l’agenda del 1987, quando
sentii aprire la porta, non feci in tempo a rimettere a posto le foto e le
agende nel cassetto, che l’occhio del prete cadde sui documenti sparpagliati
sul tavolo della scrivania.
-Eccomi, mi scusi ma.. –
Michelangelo Tusa si
bloccò, lesto come un gatto quasi meccanicamente entrò dentro la stanza e
chiuse a chiave, la fronte sempre più sudata, si spostò verso l’armadio
libreria situato a lato della porta di fronte la scrivania.
-Ha trovato qualcosa di
interessante in quello che sta leggendo? –
Senza darmi il tempo di
abbozzare una risposta continuò.
-Poverini, starà pensando,
questi sant’uomini sono caduti nella rete di un folle.. –
Le mie gambe incominciarono
a tremare forte, non avevo più controllo del mio corpo, tremavo e basta. Il
prete aprì uno stipetto della libreria e ne estrasse una pistola. L’arma
appariva lucida, come se fosse stata ingrassata di continuo e non avesse mai
sparato un colpo. Impugnatala me la puntò addosso, mi fece gesto di sedermi su
una poltroncina.
-Ma a lei interessa la
verità? –
Mossi il capo per dire di
si, non riuscivo a parlare, avevo la bocca priva di saliva, la visione di
quella pistola mi terrorizzava.
Tusa si tolse gli occhiali,
questi nascondevano due profonde occhiaia, si passò una mano sugli occhi, poi
la fece scivolare sul viso, sembrava che si stesse per togliere un peso,
sembrava non aspettasse altro da anni.
-Troppo facile, additare
una persona come mostro.. – fece una pausa, si risistemò i pesanti occhiali sul
naso - .. e va bene io sono un mostro, la mia anima ormai è dannata, sono uno
strumento del diavolo. Ma nessuno mai si interroga come si creano i mostri?
Dove si trova la fabbrica dei mostri? –
Cominciavo a sentire delle
fitte allo stomaco “Ma perché io? Come sono entrato in tutto questa storia?”
sembravamo due dannati, io paralizzato dalla paura e il prete che ormai
grondava di sudore.
-Sa di chi sono figlio io?
–
Non risposi.
-Sa di chi sono figlio io?
– ripeté la domanda.
- No. – mi sforzai di
rispondere.
-Sono figlio di una
prostituta e di un prete. –
Appena disse queste parole
si bloccò, nella stanza cadde un profondo silenzio interrotto dal rumore di una
macchina proveniente dalla strada.
- All’età di dieci anni un
bambino di una povera borgata di Palermo scopre tre cose che fino ad allora lo
avevano fatto soffrire, perché i suoi compagni di scuola lo prendevano in giro,
che lavoro faceva sua madre e poi chi fosse suo padre. Capisce? Stiamo parlando
di un bambino di dieci anni. Un bambino che veniva torturato dai suoi compagni
di giochi, che veniva scacciato da casa dalla madre, perché non doveva averlo
tra i piedi quando doveva ricevere i suoi clienti. E lui scopre che è frutto di
una relazione tra la madre e un prete. Un prete che si approfittava delle
difficoltà di una povera donna. Mi sa dire come si deve sentire un bambino di
quell’età quando viene messo di fronte a questa realtà?-
Scosse la testa.
-Nessuno può sapere certe
cose, se non le si vive sulla propria pelle. Sa quando ho scoperto chi era mio
padre? .. un giorno di Pasqua. Quella mattina ero contento, mia madre mi regalò
una macchina fotografica, poi ci recammo in chiesa. Ci sistemavamo sempre in
fondo alla chiesa, gli altri sapevano chi era mia madre, la sua presenza
provocava turbamento anche a quel “sant’uomo” del prete. Ogni volta che finiva
una messa, mia madre si nascondeva tra le navate della chiesa mi mandava a
giocare fuori nel cortile, e rimaneva nascosta fino a quando la gente non
usciva completamente, in modo tale da poter rimanere sola col prete. Perché mia
madre si comportasse così inizialmente non lo capivo, una volta entrai di
nascosto dentro e vidi che il prete e mia madre erano seduti attorno al tavolo
della sagrestia, discutevano, rimasero a parlare per mezz’ora. Non riuscivo a
capire cosa mia madre potesse confessare al prete di così importante ogni
domenica, alle volte pensavo che la causa di quelle discussioni ero io, magari,
pensavo, non riesce più a mantenermi e mi vuole mandare in qualche famiglia
benestante e chiede al prete un consiglio su a chi affidarmi. Questa spiegazione
non era plausibile, non avrei mai accettato di andarmene e anche se mi avessero
allontanato sarei ritornato. Quella domenica non fece eccezione, rimasi a
giocare in cortile per un’ora. Quell’anno Pasqua cadde ad Aprile, era una
giornata meravigliosa, il sole batteva forte, sembrava di essere in estate. La
fame e il caldo non mi fecero resistere di più, decisi di entrare e di farmi
sentire. Entrando in sagrestia sentivo mia madre piangere, il pianto proveniva
dalla cucina, la porta era accostata, ma riuscii a vedere chiaramente lei e il
prete abbracciati. Aveva la testa appoggiata al suo petto lo stringeva forte e
piangeva, lui la consolava come un marito consola la propria moglie. Poi mia
madre smise di piangere, abbozzò un sorriso e disse rivolgendosi al prete
queste parole che non scorderò mai nella mia vita “ho regalato una macchina
fotografica a nostro figlio, è un bambino buono e tanto sfortunato, si sta
facendo grande ed è sempre più difficile nascondergli la verità”.
Queste parole furono un
duro colpo per me, ricordo che persi l’equilibrio e urtai la porta che si
aprii, però fui più veloce e scappai dritto a casa. Se si accorsero della mia
presenza non lo so. Però da quel giorno qualcosa cambiò, il prete cominciò a
frequentare la nostra casa, veniva la sera tardi, mia madre quando dormivo mi
svegliava per salutarlo, io ubbidivo anche se non riuscivo a guardarlo in
faccia. Ma il peggio doveva ancora venire.. –
Michelangelo Tusa sembrava
stesse rivivendo il suo passato, lo sguardo fisso alla finestra alle mie
spalle, forse non si rendeva nemmeno conto della mia presenza, teneva con mano
ferma la pistola puntata su di me.
-La fine della mia vita, e
della mia anima fu una sera di fine Maggio. – continuò – Non era nemmeno tanto
tardi, dovevano essere le undici. Il prete era arrivato a casa nostra alle
dieci e mezza. La nostra casa era povera, costituita da un’unica stanza
collegata alla cucina dove c’era un divano letto sul quale dormiva mia madre.
Si trattava di un appartamento vecchio, con i muri spessi e le volte alte.
Talmente alte che si era creato lo spazio per una mansarda sopra la cucina, era
il posto dove dormivo io. Quella sera eravamo tutti e tre in cucina, quando
verso le undici si sentirono voci provenienti dalla strada. Erano dei ragazzi che
inveivano contro il prete, inizialmente mia madre e il prete non fecero caso
alle urla. A me, diversamente da loro, terrorizzavano. Cominciai a chiedere
cosa stesse succedendo, mia madre cercò di tranquillizzarmi e mi ordinò di salire su in mansarda e andare a dormire, che
era tardi. Naturalmente, non avevo sonno, ma ubbidii senza dirle niente.
Le urla diventavano sempre
più forti. Scandivano il nome del prete, lo offendevano pesantemente. L’uomo
stava perdendo la calma, io dall’alto della mansarda potevo seguire tutto
quello che accadeva in basso, cominciò a sbraitare era paonazzo in faccia. “Ma
cosa credono di fare!” urlava, “così mi rovinano!” mia madre a quel punto
spalancò la finestra e rivolgendosi ai ragazzi gli disse di smetterla di
tornare a casa, altrimenti avrebbe chiamato i carabinieri. I ragazzi ignorarono
l’invito a calmarsi, e cominciarono a forzare il portone d’ingresso del
palazzo. Vedendo il risultato dell’intervento di mia madre, il prete perse il
senno, cominciò ad urlare e gli scappò una frase che non scorderò più finche
vivrò.. –
Padre Tusa, si fermo nel
suo racconto, si tolse di nuovo gli occhiali, si asciugò col bavero della
tonaca il sudore dal viso, si risistemò gli occhiali, prese aria e cercò di
continuare il suo racconto. Ricordare gli costava tanto.
-Disse.. – continuò – “E’
colpa tua che sei una puttana e di quel bastardo di tuo figlio se ora sono
rovinato”. E non scorderò mai quello che fece mia madre dopo che il prete finì
di dire quelle cose, gli diede uno schiaffo che lo fece cadere a terra, e poi
gli disse “Questo non è per quello che hai detto a me, ma per quello sfortunato
bambino, che ha una madre come me e un padre come te”.
Intanto i ragazzi erano
arrivati dietro la porta di casa, cominciarono a prenderla a calci, a suonare e
ad urlare. Mia madre, nera, aprii la porta voleva affrontarli, i ragazzi la
evitarono, il loro bersaglio era il prete, si diressero verso di lui, che era
ancora disteso sul pavimento. Continuavano ad insultarlo e poi due di loro
cominciarono prenderlo a calci. Io avevo paura ero terrorizzato, ero spaventato
che facessero male a mia madre, non sapevo se intervenire se rimanere nascosto
se scappare e chiedere aiuto. Poi non so perché presi la mia macchina
fotografica e iniziai a scattare foto su tutto quello che stava accadendo. –
Si interruppe, aprii il
cassetto dove avevo risistemato le foto, le prese e se le fece scivolare dalla
mano.
-Vede quante foto ho fatto
nella mia vita? Purtroppo i soggetti sono pessimi. – poi cominciò a pestarle e
a scalciarle.
-Se cerca bene, trova anche
alcune foto di quella sera. –
Avevo troppo paura per
distogliere lo sguardo dagli occhi di Michelangelo Tusa.
-Il prete riuscì ad alzarsi
dal pavimento, riconobbe quei ragazzi, era adesso accecato dall’odio, cominciò
ad urlagli contro, tre dei quattro ragazzi indietreggiarono, rimase solo uno a
fronteggiarlo, volarono parole grosse tra loro, poi sembravano calmarsi e
cominciarono a discutere sempre più animatamente, io non riuscivo a capire cosa
si dicessero. Ad un certo punto il prete perse completamente la pazienza e si
scagliò sul giovane, lo sbatté contro il muro e cercò di strozzarlo. Gli altri
ragazzi, intervennero per salvare l’amico, cercarono di toglierlo dalle mani
del prete. Intervenne anche mia madre, il prete involontariamente cercando di
liberarsi dalla carica dei ragazzi spinse mia madre che cadendo all’indietro
sbatté la testa violentemente sul pavimento. Si aprii intorno a lei un lago di
sangue, il prete prese dal tavolo il coltello che usavamo per tagliare il pane
e lo scagliò contro il ragazzo, nella colluttazione a morire fu il prete. Aveva
un lungo taglio sullo stomaco, stramazzò subito a terra. Gli altri tre ragazzi
vista la scena scapparono via, mentre l’altro accese il fornello, prese un
drappo della tenda e cominciò ad appiccare il fuoco, poi scollegò la bombola
dai fornelli lasciandola aperta, voleva far saltare tutto in aria. Si pulì le
mani con uno strofinaccio, si fermò davanti al corpo con lo stomaco squarciato
del prete, gli staccò il crocifisso che gli pendeva dal collo e glielo conficcò
a mo’ di pugnale dentro la ferita. Gli lasciò un ultimo sorriso di disprezzo e
andò via. –
Tusa, si sedette sulla sua
poltrona dietro la scrivania abbassò il capo, era come se si stesse
confessando, raccontò quella storia di getto, senza fare una sosta. Ascoltavo
tutto senza fare più attenzione alla pistola che mi era puntata contro,
dimenticandomi che in quel momento il mio ruolo era quello della vittima. Se
un’osservatore esterno, fosse entrato in quell’istante ci avrebbe scambiato per
due vecchi amici che si stavano incontrando dopo tanto tempo e si stavano
raccontando pezzi della loro vita.
-Scesi dalla mansarda,
avevo il viso completamente rigato dalle lacrime, mi avvicinai al corpo di mia
madre, lentamente con un dito le toccai le tempie, era fredda e completamente
inerme. Avevo la conferma di quello che temevo, era morta. Scoppiai in un
pianto forte e sordo, il gas che fuoriusciva dalla bombola mi intasava le
narici, le fiamme tutte intorno a me. Da quella notte la mia vita cambiò
completamente. Misi la macchina fotografica in tasca, e cominciai a correre,
abbandonai la casa, correvo senza guardare indietro, senza meta, finché dietro
di me si sentì una grossa esplosione. Mi ritrovai ai Quattro Canti, quando non avevo
più fiato per correre e le mie gambe erano piene di acido lattico. Trovai la
porta della chiesa di San Giuseppe dei Teatini aperta e vi entrai, come se
avessi trovato il mio rifugio.
Fui accolto da padre
Pintacura, il quale cercò di capire da dove venissi e la mia storia. Nonostante
il mio mutismo, che durò un anno e mezzo, riuscì a scoprire da quale parte
della città provenissi e cosa faceva mia madre. Una volta svolte queste
indagini non toccò più con me questo argomento.
Pintacura mi diede un’istruzione,
mi inserì nel gruppetto di ragazzi del quartiere, mi aveva dato la libertà. La
mia vita così improvvisamente cambiò, scoprì quanto mi piacesse studiare e
leggere, in particolare la vita dei santi, il Vangelo e la Bibbia.
Le vite dei santi le trovavo
interessanti, spesso questi avevano affrontato un percorso tortuoso e
tormentato che li portava alla scoperta della fede e all’annullarsi nell’amore
per Dio e le sue creature. Amavo il Vangelo, perché in esso è scritta la parola
perdono. All’età di diciassette anni ero sicuro di aver trovato il mio
percorso, avevo deciso di farmi prete.
Tante erano le motivazioni,
grazie alla chiesa avevo trovato la serenità, lei era diventata il mio mondo,
mi piaceva lo studio della religione,e poi perché mi sentivo in debito con Dio.
Ero figlio di un uomo che aveva usato la Sua parola per propri fini, ero
cresciuto nel peccato, nello squallore, ma mi si aveva data un’altra
possibilità, adesso dovevo donare parte della mia vita a Lui.
Ricordò quando diedi la
notizia a padre Pintacura, mi aspettavo una reazione di gioia da parte sua,
invece accolse la notizia in modo freddo, quasi impassibile, mi chiese
solamente se ero sicuro della mia vocazione.
Ma io la decisione l’avevo
presa e comunque avrei dovuto superare il seminario per verificare quanto fosse
grossa la mia vocazione.
Però c’era un altro
pensiero che mi martellava la testa, volevo conoscere meglio quello che era mio
padre, capire che uomo era, se era totalmente un uomo cattivo, e chi erano quei
ragazzi che quella notte lo perseguitarono, il perché lo odiavano tanto fino a
quel punto.. mi veniva in mente spesso l’immagine del ragazzo che conficcava il
crocifisso nella ferita. Sempre a diciassette anni iniziai a prendere notizie
su mio padre. Era un prete poco amato dai suoi parrocchiani, era giudicato un
uomo ambiguo, e tutti sapevano della relazione che aveva con mia madre.
Oltre ad essere un parroco
di una chiesa di Romagnolo, insegnava religione in un liceo classico di
Palermo. Quei ragazzi che lo insultavano quella sera, erano completamente
diversi da quelli che conoscevo io nel mio quartiere o a scuola, erano vestiti
sistemati, puliti, dall’aspetto si vedeva che non avevano conosciuto la
povertà, e anche il loro modo di parlare, non c’era traccia di dialetto e il
loro argomentare era forbito. Ero sicuro che provenivano dal liceo dove
insegnava mio padre, magari erano suoi alunni. Scoprire a questo punto chi
fossero fu un gioco da ragazzi, confrontai le foto degli alunni delle classi
che in quell’anno erano stati studenti di mio padre con quelle che avevo
scattato quella notte. I quattro ragazzi erano Ciro Lo Vecchio, Pasquale De
Felice, Vincenzo Leone e Carlo Tommasini. –
-E hai pensato di farli
fuori adesso? Dopo tutti questi anni? – lo interruppi.
La domanda lo indispettì
parecchio, storse la bocca, scosse la testa, poi riprese il racconto.
-Volevo capire che tipi
fossero, conoscere le loro vite. Iniziai a seguirli, a fotografarli di nascosto
ogni momento della loro vita, ogni giorno ogni maledetta ora. Gli anni
passavano e io sapevo sempre di più su di loro, più scavavo nella loro intimità
più seguivo il loro lavoro le famiglie che stavano formando, più mi rendevo
conto che la vita da prete non era quello che in realtà desideravo. La crisi
aumentò quando mi accorsi che l’astio che nutrivo verso di loro in alcuni casi
si trasformava in ammirazione. Una volta mi trovai a desiderare la loro vita.
Fu quello il momento in cui capì che loro mi avevano rubato la mia esistenza,
mi avevano tolta ogni possibilità di creare un futuro diverso, ero un uomo
finito. Un uomo che pagava colpe di altri, di mio padre di mia madre e di quei
quattro ragazzi. Alle volte provavo un odio sviscerato, pensavo in quei momenti
che dovevo ucciderli, mi ero procurato un’arma, questa. – indicando la pistola
che mi puntava – altre volte invece pensavo che alla fine non avrei trovato il
coraggio di ucciderli. Poi ritenni che il loro omicidio non mi avrebbe ripagato
appieno per tutto quello che avevo sofferto, così pensai che li dovevo ricattare,
avevo le foto di quella sera, mi avrebbero dovuto pagare, e pagare tanto.
Passai anni tra il desiderio di ucciderli e quello di ricattarli cercando di
allietare questo odio concentrandomi nella mia figura di prete. Ci tentai! –
Urlò Tusa, il suo tono di
voce si faceva via via sempre più aggressivo.
-Fu tutto inutile, quella
pace interiore che avevo conquistato da ragazzino, sparì del tutto. Non volevo
fare il prete. Decisi allora di ricattarli di farmi dare tanto denaro e di
ricominciare una nuova vita altrove. Mandai una busta con le foto ad ognuno di
loro, con l’invito di farsi trovare a Piazza Pretoria la notte del quattordici
Novembre scorso, fu così che il demonio completò il suo piano usandomi come
strumento. -
- Volevo vederli tutti e
quattro lì insieme, io sarei rimasto nascosto dietro la piazza - continuò – volevo vedere la paura nei lo
sguardi, provare la sensazione di tenere in pugno uomini così importanti. Non
sapevo cosa avrei fatto dopo, continuare a ricattarli, ottenere i soldi e
scappare o se fossi stato alla fine capace di ucciderli. –
Si fermò accarezzò la
pistola – Questa doveva essere l’arma con la quale mi sarei fatto giustizia,
l’ho tenuta in ottime condizioni e pronta all’uso, ma qualcuno più potente di
me ha deciso che la vendetta sarebbe stata in altro modo. –
Tusa sfoderò un sorriso che
mi mise ancora più in tensione, era un sorriso diabolico, partorito da una
mente malata, che rivelava la soddisfazione che provava per quello che aveva
compiuto e che mi faceva tirare come conclusione che mi trovavo dinanzi ad una
persona folle, pronta a compiere qualsiasi gesto, “Questo è capace di spararmi
in qualsiasi momento”.
-Le cose andarono
diversamente, quella notte, all’appuntamento si presentò solamente Vincenzo
Leone, caddè anche una fitta pioggia che non mi permetteva di avere una visuale
perfetta. Così la mano del diavolo fu veloce, e avevo davanti ai miei occhi ciò
che per anni avevo solamente desiderato, ancora agonizzante Leone perdeva
sangue, gli occhi sbarrati verso il cielo. Il colpo era stato perfetto, ero
diventato strumento del male e mancava solamente una cosa. In tasca avevo un
grosso rosario, staccai il crocifisso e glielo conficcai dentro lo squarcio che
aveva nello stomaco. Da quel momento in poi non ci fu altro che sangue. La mia
vendetta piano piano si stava compiendo. Ma dovevo pagare, sapevo che il
diavolo mi avrebbe presentato il conto e più si arrivava vicini alla
conclusione, più il prezzo saliva. Il mio odio travolse una persona che amavo,
quello che mi aveva fatto crescere, l’unica persona che mi ha voluto bene,
padre Pintacura. –
L’uomo adesso chinò il
capo, lacrime gli solcavano il viso, la mano con la quale teneva la pistola gli
tremava.
-Ma tanto lo so benissimo,
che il prezzo finale da pagare sarà con la mia vita. La vendetta deve essere
completata e la mia anima apparterrà al demonio. –
Finì di aggiungere queste
parole, quando suonò il campanello della canonica, qualcuno bussava, Tusa andò
in agitazione ancora di più, scorse alla finestra ma non riuscì a vedere chi
fosse. Si diresse verso la porta della stanza, l’aprì poi tornò indietro verso
di me, con un gesto rapido della mano, girò la pistola e mi diede un colpo col
calcio alla tempia. Il colpo mi fece perdere i sensi, sulla figura di Tusa
cadde un drappo nero.
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