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martedì 17 dicembre 2013

IL GIOCO DEL RAGNO CAPITOLO 10

                                                10

Era trascorsa una settimana, in modo tranquillo, non ricevetti nuove buste, nessuno si era precipitato alle tre del mattino per bussarmi alla porta, e anche il tempo sembrava essere migliorato.
“E sì, proprio una bella giornata, che fortuna! Oggi voglio fare quattro passi al Foro Italico, un po’ d’aria di mare non può che farmi bene.”
Di solito le mattine del mio giorno libero le passavo dormendo o andando a fare la spesa al centro commerciale, ma oggi la giornata era proprio bella, sembrava un anticipo di primavera.
Stavo finendo pigramente di vestirmi, quando sentii suonare il campanello. – Chi è? – mi aspettavo la voce di Serena o di Alessio, visto che erano quelli che godevano di una maggiore flessibilità nel lavoro e nello studio e che quindi spesso avevano le mattinate libere. Invece mi rispose una voce che non conoscevo.
 – Sono l’ingegnere Tommasini – rispose secco l’uomo.
Rimasi immobile come una statua, ero paralizzato dallo stupore “ E questo? Da dove spunta? Come ha fatto a trovarmi? Ora sono cazzi!”
 – Cerco il signor Andrea Restivo. – Presi coraggio, mi sistemai i capelli con la mano, e aprii – Sì, sono io buongiorno, prego entri – dissi queste parole in modo velocissimo senza guardarlo negli occhi, anzi tenendo bassa la testa. Man mano che il mio sguardo saliva si materializzava davanti a me un uomo imponente, di corporatura massiccia, stempiato con i capelli bianchi, naso a patata e occhi tondi color nocciola, era avvolto in un grande giubbotto in finta pelle e portava gli occhiali con una bella montatura in tartaruga. L’ingegnere era proprio imponente “questo se mi da un cazzotto, mi manda all’altro mondo!”.
Lo feci accomodare in salotto, si sedette nella poltrona e io sul divano davanti a lui. Ci fu un silenzio che durò un’eternità. Mi stava studiando, mi scrutava con quegli occhi nocciola, mi stava facendo una radiografia, leggeva dentro di me tutto il disaggio e l’imbarazzo che stavo provando in quel momento. Stavo per parlare, ma lui mi anticipò – Signor Restivo, ero molto curioso di conoscerla. Io come le ho detto sono l’ingegner Tommasini, forse il mio cognome non le dice più niente. –
-No no, certo che mi dice qualcosa, sono stato a casa sua. – ormai dovevo affrontare l’argomento era inutile fingere di non ricordare, quell’uomo era capace di riconoscere benissimo una persona che mente ne ero certo. All’ingegnere sfuggì un mezzo sorriso, continuai – Avevo intenzione di venirla trovare nuovamente per scusarmi personalmente con lei, per quello che accidentalmente ha combinato il mio cane. -
Appena dette queste parole si presentò Chimay, che andò immediatamente a conoscere il nuovo ospite, gli annusò le scarpe e fece praticamente tutto quello che fanno i cani per arruffianarsi una persona che non conoscono e che vogliono conquistare. L’ingegnere si chinò verso Chimay, l’accarezzò e se la mise sulle gambe. Con stupore vidi che il cane rimase docile e immobile, si lasciava accarezzare sembrava proprio che il suo padrone fosse stato sempre lui e  io invece  l’intruso. “Però ci sa fare questo con i cani!” la cosa un po’ mi tranquillizzava, di solito le persone che amano gli animali non odiano gli uomini.
-E lei, la colpevole? – chiese abbozzando un bel sorriso.
– Si, si è lei! – mentii, ma tanto che importava, per certe cose un cane valeva l’altro, e così potevo evitare anche di raccontargli proprio tutto.
L’uomo mentre continuava ad accarezzare Chimay, si aggiustò gli occhiali, mi gettò un’altra occhiata e disse – Comunque non si preoccupi, non sono venuto qui certo per chiederle i danni – sottolineo la parola danni facendo una sonora risata – ma per due motivi, il primo per ringraziarla dei fiori che ha regalato alla mia domestica, la signora Rosa. Gesto che ha molto apprezzato. Sa non capita spesso che un giovane le regali un mazzo di rose. –
“Ok, e il secondo motivo? Dai dimmi perché sei venuto”.
Tommasini si fermò si sistemò meglio nella poltrona, con Chimay sempre immobile sulle sue gambe. – L’altro motivo le dicevo - riprese, continuando a studiarmi con i suoi occhi che mi sembravano in quel momento due laser – è che sono molto curioso, volevo conoscerla. La mia curiosità è aiutata anche dal fatto che sono in pensione e oramai ho tanto di quel tempo libero, che se potessi, venderei diventando così molto ricco. – E qui l’uomo fece un sorriso, assumendo però un’espressione malinconica.
-Le posso offrire un caffè? – chiesi.
Quell’uomo mi faceva tenerezza, non c’era un vero e proprio motivo, non lo conoscevo nemmeno, mi sentivo in debito con lui, avevo rubato un suo ricordo, ero entrato nella sua vita e gli avevo mentito. Una volta preso il caffè, l’ingegnere ebbe un’aria rilassata, posò la tazzina sul tavolino e mi disse – Le dicevo che sono ormai da un po’ di anni in pensione, io nella mia vita ho sempre lavorato. Da piccolo facevo l’aiutante di mio padre, lui era un elettricista, e nei momenti in cui non studiavo. Anche se mi diplomai col massimo dei voti, la mia vera scuola fu mio padre, imparai tante cose standogli accanto. La mia famiglia era orgogliosa di me, nessuno aveva continuato gli studi fino al diploma, io ero stato il primo. E l’orgoglio di mio padre e di mia madre aumentò, quando riuscii a laurearmi in ingegneria. Entrai alle ferrovie e rimasi li per più di trenta anni. Ho lavorato tutta la vita..-
Cominciavo ad ammirare quell’uomo, ero convinto che le persone delle generazioni più vecchie erano quelle più forti, quelle che col sudore della propria fronte avevano creato un certo benessere in Italia. Era gente che aveva conosciuto la fame del dopo guerra, che sapeva cosa significava sporcarsi le mani per lavorare.
-Certo, il lavoro mi ha anche dato tanto – continuò – sono riuscito a sposarmi, e a creare una famiglia, ad avere due figli, Alessandra e Luca, a farli studiare e a realizzarsi. Tutto andava bene, fino al giorno in cui il destino ha voluto che mia moglie ci lasciasse.. un brutto male le tolse e le succhiò a poco a poco la vita, fino a un giorno di Agosto in cui si spense. –
L’ingegnere fece una pausa, si vedeva quanto gli costava ricordare, e trasformare quei ricordi in parole. Sentivo quasi fisicamente la difficoltà che provava nel raccontare, ma vedevo anche che più lo faceva più sembrava liberarsi da un peso, come se dal giorno della morte di sua moglie lui non avesse più parlato con nessuno, ed ora invece si sentiva pronto a mostrare il suo dolore. Tirò fuori dalla tasca una pezzuola con la quale si pulì le lenti degli occhiali e riprese a raccontare.
– Quella tragedia segno anche la fine della nostra famiglia. Mia figlia, con quello che diventò poi suo marito, partii per l’Australia, dove lavora come biologa marina, mi ha dato anche dei nipoti, che ancora non ho conosciuto.. sono ormai sette anni che non la vedo, ogni tanto ricevo una sua lettera, dove mi parla del dolore che prova ancora per la madre morta. Per fortuna con internet sono riuscito a vedere i miei nipoti, sono proprio belli.
Mio figlio Luca invece, ha trovato lavoro a Gelsenkirchen in Germania, ha sposato una tedesca. Prima, quando ancora ero in servizio, ogni volta che avevo delle ferie, prendevo il treno e andavo a trovarli. Ma da quando sono in pensione, non ho più voglia di muovermi, così ci vediamo durante le feste natalizie o in estate, quando trascorrono le vacanze in Sicilia. –
- Ma perché non lo va a trovare più spesso? – chiesi, interrompendolo.
- Perché, capita nella vita di un uomo, il momento in cui si desidera rimanere con una persona soltanto.. la solitudine.. -
Chimay saltò giù dalle gambe dell’ingegnere, sbadigliò e si stiracchiò.
-E’ proprio un cane simpatico! – disse l’ingegnere – le posso dire che è perdonata.- aggiunse, alzandosi, e sistemandosi il soprabito. Mi alzai pure io, e lo accompagnai alla porta.
– Andrea, posso darle del tu, no? Potrebbe venirmi figlio o nipote. Andrea tu mi sembri un bravo ragazzo, è stato un piacere conoscerti, scusa se ti ho tediato col racconto della mia vita. Come vedi,  l’ultima parte mi riserverà solitudine e 
rimpianti.
Mi venne naturale dargli una pacca sulla spalla, quell’uomo mi aveva conquistato, aprii la porta, per permettergli di uscire, ma ne approfitto anche Chimay per tentare una fuga,  la bloccai subito, bastò ordinarle di fermarsi – Chimay fermati! –
-Vede – dissi rivolgendomi all’uomo – ha proprio il vizio di scappare! –
-Vedo vedo! Ma non si chiamava Titti? – mi chiese l’ingegnere.
– Beh si, diciamo che ha tanti nomignoli. – abbozzai sorridendo.

“Caspita, la signora Rosa gli avrà fatto un rapporto dettagliato su tutto quello che è successo, se riesce a ricordarsi il nome del cane. Devo parlare con Serena, raccontarle dell’incontro”. In quel momento ricordai che la foto era rimasta in suo possesso dal giorno dell’incontro col professore De Felice “Devo restituire la foto a Tommasini.”

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