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mercoledì 16 aprile 2014

Noam Chomsky. I CORTILI DELLO ZIO SAM.




Noam Chomsky.
I CORTILI DELLO ZIO SAM.
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DI NOAM CHOMSKY.
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What Uncle Sam really wants.
PROTEGGERE IL NOSTRO ORTICELLO-
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I rapporti tra gli Stati Uniti e il resto del mondo risalgono ovviamente alle origini della storia americana, ma la II guerra mondiale rappresenta un vero e proprio spartiacque, quindi partiremo da lì.
Mentre la maggior parte dei concorrenti industrializzati furono gravemente ideboliti o totalmente distrutti dalla guerra, gli Stati Uniti ne trassero enormi benefici. Il loro territorio non fu mai attaccato direttamente, e la produzione nazionale risultò più che triplicata.
Anche se già prima della guerra, gli Stati Uniti erano di gran lunga la più ricca nazione industrializzata del mondo – è stato così fin dall’inizio del secolo – all’indomani del secondo conflitto mondiale essi però possedevano letteralmente il 50% della ricchezza totale, e controllavano entrambe le coste dei due oceani. Non c’era mai stato, nella storia, un momento in cui una sola potenza avesse avuto un controllo così schiacciante sul mondo intero, né una sicurezza così assoluta.
Le persone che determinavano la politica americana erano perfettamente consapevoli che gli Stati Uniti sarebbero emersi dalla II guerra mondiale come la prima potenza globale della storia, e durante o dopo il conflitto gli Usa progettarono accuratamente quale dovesse essere l’assetto del mondo nel dopoguerra.1 Poiché questa è davvero una società aperta, possiamo prendere visione di questi progetti, che erano assolutamente espliciti e chiari.
Tutti gli analisti politici americani – da quelli del Dipartimento di Stato a quelli del Consiglio per i Rapporti con l’Estero (uno dei principali canali attraverso cui i grandi finanzieri influenzano la politica estera) – concordavano sulla necessità di consevare la supremazia americana. Ma riguardo ai metodi per conseguire tale scopo c’era un ampio ventaglio di opinioni.
All’estremo dello schieramento favorevole alla linea dura, troviamo documenti come il Memorandum n° 68 del Consiglio per la Sicurezza Nazionale (1950). Questo sviluppava le opinioni del segretario di Stato, Dean Acheson, elaborate e redatte da Paul Nitze, che è ancora sulla scena (è stato uno dei negoziatori di Reagan per il controllo degli armamenti). Il documento invoca una “strategia della fluttuazione” che avrebbe dovuto far “germogliare i semi della distruzione all’interno del sistema sovietico” in modo tale da poter negoziare alle nostre condizioni un accordo “con l’Unione Sovietica (o con lo stato o gli stati che ad essa sarebbero succeduti)”.
La politica raccomandata dal Memorandum n° 68 richiedeva agli Usa “sacrificio e disciplina” – in altre parole, ingenti spese militari e tagli ai servizi sociali. Prevedeva anche la necessità di superare quell’”eccesso di tolleranza” che lasciava troppa libertà al dissenso interno.
Tali politiche erano in realtà già in atto. Nel 1949 lo spionaggio americano in Europa dell’Est aveva subito una trasformazione diventando una vera e propria rete, diretta da Reinhard Gehlen, già a capo dello spionaggio militare nazista sul Fronte Orientale. Tale rete era soltanto uno dei frutti di quell’alleanza tra nazisti e americani che portò in breve tempo all’arruolamento di molti dei peggiori criminali di guerra e che estese poi le proprie operazioni in America Latina e in molte altre regioni del mondo.
Queste operazioni includevano anche un “esercito segreto”2 sotto gli aupici Usa-nazisti, che provvedeva a fornire agenti e forniture militari agli eserciti che erano stati istituiti da Hitler e che ancora, fino all’inizio degli anni ’50, operavano all’interno dell’Unione Sovietica e dell’Europa Orientale. (Ciò è risaputo negli Usa ma viene considerato un dettaglio insignificante – anche se molti avrebbero da ridire qualora la situazione fosse stata ribaltata, e si fosse scoperto che l’Unione Sovietica aveva fatto arrivare agenti e forniture militari ad organizzazioni fondate da Hitler e operanti sulle Montagne Rocciose.)
L’ALA ESTREMA LIBERAL
Il Memorandum n° 68 rappresenta il pensiero dell’ala estrema dei “falchi”, e bisogna tener presente che questi programmi politici non erano semplicemente teorie – molti di essi furono di fatto messi in pratica. Ora passiamo all’altro estremo, quello delle “colombe”. Il loro leader era senza dubbio George Kennan, a capo dell’ufficio programmazione del Dipartimento di Stato fino al 1950, quando venne sostituito da Nitze – l’ufficio di Kennan, tra parentesi, aveva la responsabilità della rete di Gehlen.
Kennan è stato uno dei politici più intelligenti e lucidi degli Stati Uniti, ed ha avuto un ruolo centrale nel processo che diede forma al mondo del dopoguerra. I suoi scritti sono un’illustrazione estremamente interessante della posizione delle “colombe”. Uno dei documenti che bisogna conoscere se si vuol capire il nostro paese3 è lo Studio n° 23 di Pianificazione Politica (Policy Planning Study), scritto da Kennan per l’ufficio pianificazione del Dipartimento di Stato nel 1948. Eccone un estratto:
“Noi possediamo circa il 50% delle ricchezze del globo, ma solo il 6,3% della sua popolazione… In questa situazione, non possiamo che essere oggetto di invidie e risentimenti. Il nostro vero compito nell’immediato futuro consiste nell’individuare uno schema di rapporti che ci consentano di mantenere tale posizione di disparità… Per poterlo fare, dovremo rinunciare a tutti sentimentalismi ed i sogni ad occhi aperti; la nostra attenzione dovrà concentrarsi, sempre ed in ogni caso, sul nostro immediato obiettivo nazionale… Dovremo smetterla di parlare di obiettivi vaghi… e irreali come i diritti umani, l’innalzamento del livello di vita e la democratizzazione. Non è lontano il giorno in cui dovremo agire in termini di potere diretto. Meno saremo intralciati dagli slogan idealistici, meglio sarà”.
Lo Studio n° 23, naturalmente, era un documento “top secret”. Per tranquillizzare l’opinione pubblica, era invece necessario sbandierare gli “slogan idealistici” (come viene fatto costantemente ancora oggi).
Sulla stessa linea di pensiero, in una circolare del 1950, rivolta gli ambasciatori nei paesi dell’America Latina, Kennan osserva che una delle principali preoccupazioni della politica estera degli Usa deve essere “la protezione delle nostre [cioè dell'America Latina] materie prime”.4 Bisogna quindi combattere una pericolosa eresia che, secondo quando riferito dallo spionaggio americano, si va diffondendo in America Latina: “L’idea che il governo abbia la responsabilità diretta del benessere di tutta la popolazione”.
I politici americani chiamano tale idea “comunismo”, quali che siano le reali posizioni politiche della gente che le propugna. Può trattarsi di gruppi di solidarietà a base cattolica o di qualsiasi altra cosa: se sostengono questa eresia, allora sono “comunisti”.
Quest’ultimo punto viene messo in chiaro anche nei documenti pubblici. Per esempio, nel 1955 un gruppo di studio ad alto livello dichiarò che la minaccia essenziale dei poteri comunisti (in pratica, il vero significato del termine “comunismo”) consiste nel loro rifiuto di svolgere il loro ruolo di servizio – cioè di “fare da complemento alle economie industriali dell’Occidente”.
Kennan prosegue spiegando i metodi da usare contro i nemici che cadono vittime di questa eresia:
“La risposta finale potrebbe essere sgradevole, ma… non dobbiamo esitare di fronte alla repressione poliziesca messa in atto dai governi locali. Non si tratta di una vergogna perché i comunisti sono essenzialmente dei traditori… Meglio avere in carica un regime forte che un governo liberal, se questo è indulgente e lassista e pieno di infiltrati comunisti”.
Questo tipo di politica non è iniziata con i liberal del dopoguerra come Kennan. Come già trent’anni prima sottolineava il segretario di Stato di Woodrow Wilson, il significato operativo della Dottrina Monroe era che “gli Stati Uniti fanno i loro interessi. L’integrità delle altre nazioni americane è un aspetto secondario, non lo scopo”. Wilson, il grande apostolo dell’auto-determinazione dei popoli, concordava che questo argomento era “incontestabile”, benché fosse “impolitico” ammetterlo pubblicamente.
Wilson mise in atto questa idea, tra l’altro, invadendo Haiti e la Repubblica Dominicana, dove i suoi soldati uccisero e distrussero, demolirono il sistema politico locale, lasciarono pieni poteri alle grandi società americane e prepararono il terreno a dittature brutali e corrotte.
LA “GRANDE AREA”
Durante la II guerra mondiale, gli studiosi del Dipartimento di Stato e del Consiglio per i Rapporti con l’Estero progettarono il mondo del dopoguerra nei termini di ciò che essi chiamavano la “Grande Area”, la quale doveva essere subordinata alle necessità dell’economia americana.5
La Grande Area avrebbe dovuto comprendere l’emisfero occidentale, l’Europa Occidentale, l’Estremo Oriente, l’ex impero britannico (in fase di smantellamento), le straordinarie risorse energetiche del Medioriente (che in quel periodo, ormai estromesse le rivali Francia e Gran Bretagna, stavano passando in mano agli americani), il resto del Terzo Mondo e, se possibile, l’intero pianeta. Questi piani furono messi in pratica ogni qualvolta che se presentava l’opportunità.
A ciascuna parte del nuovo ordine mondiale fu assegnata una funzione specifica. I paesi industrializzati avrebbero dovuto essere guidati dalle “grandi officine”, Giappone e Germania, che avevano dimostrato la loro superiorità durante la guerra (e che ora avrebbero lavorato sotto la supervisione degli Stati Uniti).
Il Terzo Mondo doveva “adempiere alla sua funzione principale come fonte di materie prime e mercato” per le società industrializzate capitaliste, come spiega un memorandum del Dipartimento di Stato del 1949. Esso doveva essere “sfruttato” (nelle parole di Kennan) per la ricostruzione dell’Europa e del Giappone. (Si fa qui riferimento al Sudest Asiatico e all’Africa, ma il discorso è valido anche in generale.)
Kennan suggerisce persino che l’Europa potrebbe trarre un beneficio psicologico dal progetto di “sfruttare” l’Africa. Naturalmente, nessuno suggerì mai che l’Africa avrebbe potuto sfruttare l’Europa per la proprio ricostruzione, magari migliorando nel contempo il proprio stato d’animo. Questi documenti un tempo riservati, oggi vengono letti solo dagli studiosi che, sembra, non vi trovino niente di strano o di stonato.
La guerra del Vietnam è un risultato della necessità di garantirsi quel ruolo di servizio, ruolo che i nazionalisti vietnamiti si rifiutavano di accettare: bisognava quindi dar loro una lezione. La minaccia non proveniva dal rischio che il Vietnam conquistasse altri stati, ma dal pericoloso esempio di indipendenza nazionale che rappresentava, e che avrebbe potuto ispirare gli stati limitrofi.
Il governo statunitense doveva svolgere due ruoli essenziali. Il primo era quello di mantenere il controllo sugli immensi domini della Grande Area. Ciò richiedeva un atteggiamento intimidatorio, per evitare che qualcuno interferisse con il loro obiettivo – e questa è una delle ragioni per cui abbiamo assisitito ad una pazzesca corsa agli armamenti nucleari.
Il secondo ruolo del governo era quello di assicurare un finanziamento pubblico pubblico per l’industria ad alta tecnologia. Per svariati motivi, il sistema scelto fu, in gran parte, quello della spesa militare.
Il libero mercato va benissimo per gli specialisti dell’economia e per gli editoriali dei quotidiani, ma è una dottrina che non viene presa sul serio da nessuno nel mondo dell’alta finanza o del governo. I settori dell’economia americana in grado di competere sul mercato internazionale sono soprattutto quelli a finanziamento statale: agricoltura a capitale intensivo (lo chiamano agrobusiness), industria high-tech, farmaceutica, biotecnologie, eccetera.
Lo stesso vale per le altre società industrializzate. Il governo degli Stati Uniti fa pagare al contribuente la ricerca e lo sviluppo, e provvede, soprattutto attraverso le spese militari, all’esistenza di un mercato garantito dallo stato per la produzione di massa. Se qualche cosa è commerciabile, se ne occupa il settore privato. Questo sistema di finanziamento pubblico e profitto privato è quello che viene chiamato “sistema di libera impresa”.
RESTAURARE L’ORDINE TRADIZIONALE
Gli strateghi del dopoguerra come Kennan avevano perfettamente capito che sarebbe stato di vitale importanza per la salute della grande industria americana che le altre società industrializzate dell’Occidente si riprendessero dai danni della guerra in modo da poter importare le merci americane e rappresentare anche un’opportunità d’investimento. (Nel mondo occidentale comprendo anche il Giappone, secondo la vecchia convenzione sudafricana che tratta i giapponesi come “bianchi onorari”.) Ma per questo era fondamentale che la ricostruzione di quelle società avvenisse in un modo molto particolare.
Doveva essere restaurato l’ordine tradizionale, orientato a destra, con il mondo degli affari in posizione dominante, i lavoratori divisi e indeboliti, e il peso della ricostruzione saldamente sulla spalle della classe lavoratrice e dei poveri.
Il principale ostacolo che si frapponeva a questo progetto era dato dalla resistenza antifascista, che fu pertanto soppressa un po’ in tutto il mondo e spesso sostituita da collaboratori fascisti e nazisti. Ciò richiese talora l’uso di una violenza estrema, ma altre volte si poté ottenere con misure più morbide, come la manipolazione delle elezioni o il negare il cibo di cui c’era disperata necessità. (Questo dovrebbe essere l’argomento del primo capitolo di qualsiasi onesto libro si storia che tratti il periodo del dopoguerra ma, in realtà, è raro persino che se ne parli.)
Questo schema venne adottato nel 1942, quando il presidente Roosevelt novinò un ammiraglio francese, Jean Darlan, governatore generale di tutto il Nord Africa francese. Darlan era uno dei più importanti collaboratori dei nazisti, nonché l’autore delle leggi antisemite promulgate dal governo Vichy (il regime fantoccio dei nazisti in Francia).
Ma molto più importante risultò essere la prima regione europea liberata, l’Italia meridionale, dove gli Stati Uniti, seguendo il consiglio di Churchill, imposero una dittatura di destra guidata dall’eroe di guerra fascista, il maresciallo Badoglio, e dal re Vittorio Emanuele III, anch’egli collaboratore dei fascisti.
I politologi americani riconoscevano che la “minaccia” per l’Europa non era rappresentata dall’aggressione sovietica (che gli analisti più seri come Dwight Eisenhower non mettevano in conto) ma piuttosto dalla resistenza antifascista – con i suoi ideali radicalmente democratici, che aveva le sue basi tra i lavoratori e contadini – e dal potere e dal fascino politico esercitato dai partiti comunisti locali.
Per scongiurare il collasso economico che avrebbe incrinato la loro influenza, e per ricostruire le economie capitalistiche di stato in Europa Occidentale, gli Stati Uniti realizzarono il Piano Marshall (grazie al quale all’Europa vennero elargiti prestiti e donazioni per oltre 12 miliardi di dollari tra il 1948 e il 1951, fondi che, nel 1949, coprirono un terzo delle esportazioni Usa in Europa).6
In Italia, un movimento di contadini e lavoratori, guidato dal Partito comunista, aveva tenuto testa a sei divisioni tedesche durante la guerra, liberando infine il nord del paese. Quando le forze americane avanzarono verso il nord dispersero questa resistenza antifascista e cercarono di restaurare in gran parte la struttura di base del regime fascista anteguerra.
L’Italia è stata una delle principali regioni di influenza della Cia, fin dalla sua fondazione. L’Agenzia era molto preoccupata che il comunismo potesse prendervi legalmente il potere nelle cruciali elezioni del 1948. Per scongiurare questo pericolo utilizzo le tecniche più svariate, compresa quella di ripristinare la polizia fascista, di dividere il sindacati, di far mancare il cibo. Ma non si poteva essere certi che il Partito comunista sarebbe stato sconfitto.
Il primissimo memorandum del Consiglio di Sicurezza Nazionale del 1948 (Nsc1) precisava alcune azioni che gli Usa avrebbero intrapreso se i comunisti avessero vinto le elezioni. Una delle risposte in programma era l’intervento armato, sotto forma di aiuti militari a operazioni clandestine in Italia.
Alcuni, soprattutto George Kennan, invocarono l’azione militare prima delle elezioni: non intendevano correre rischi. Ma altri lo convinsero che si poteva ottenere lo stesso risultato grazie alla sovversione, ed ebbero ragione.
In Grecia, l’esercito britannico arrivò dopo che i nazisti si erano già ritirati. Esso impose un regime corrotto, che spinse la resistenza a riorganizzarsi, mentre la Gran Bretagna, in pieno declino dopoguerra, non riusciva a mantenere il controllo della situazione. Così nel 1947 arrivarono gli Stati Uniti e appoggiarono una guerra sanguinosa che provocò circa 160.000 vittime.
La guerra fu completata dall’uso della tortura e dall’esilio politico per decine di migliaia di greci, dai cosiddetti “campi di rieducazione” per altre decine di migliaia, dalla distruzione dei sindacati e di qualsiasi possibilità di una vita politica indipendente.
Tutto ciò mise la Grecia saldamente nelle mani degli investitori americani e dei finanzieri locali, mentre gran parte della popolazione fu costretta a emigrare per sopravvivere. Tra i beneficiati v’erano i collaboratori dei nazisti, mentre tra le vittime ci furono soprattutto i lavoratori e i contadini della resistenza guidati dai comunisti.
Il successo riportato dagli Usa in Grecia contro la popolazione locale fece da modello per la guerra del Vietnam – come spiegò Adlai Stevenson alle Nazioni Unite nel 1964. I consiglieri di Reagan utilizzavano esattamente lo stesso modello quando parlavano dell’America Centrale, e lo stesso schema fu seguito in molte altre occasioni.
In Giappone, Washington diede il via alla cosiddetta “inversione di marcia” del 1947, che mise fine ai primi passi verso la democratizzazione intrapresi dall’amministrazione militare del generale McArthur. L’inversione di marcia soppresse i sindacati e le altre forze democratiche e mise il paese saldamente nelle mani degli stessi capitani d’industria che avevano sostenuto il fascismo giapponese, in un sistema di potere statale e privato che dura ancora oggi.
Quando le truppe americane entrarono in Corea nel 1945, smantellarono il locale governo popolare, composto essenzialmente di antifascisti che avevano resistito ai giapponesi, e dettero vita ad una brutale repressione, utilizzando agenti della polizia fascista giapponese e i coreani che con loro avevano collaborato durante l’occupazione. Nella Corea del Sud, prima della cosiddetta guerra di Corea, restarono uccise 100.000 persone, di cui 30-40.000 furono massacrate durante una rivolta contadina in una piccola regione, l’isola di Cheju.
Un colpo di stato fascista in Colombia, ispirato dalla Spagna di Franco, suscitò solamente una debole protesta da parte del governo degli Stati Uniti; altrettanto accadde per un golpe in Venezuela, o per la presa del potere da parte di un ammiratore del fascismo a Panama. Ma il primo governo democratico nella storia del Guatemala, che prendeva a modello il “New Deal” di Roosevelt, provocò negli Usa una forte avversione tanto che, nel 1954, la Cia diresse un colpo di stato che trasformò il paese in un inferno. Il Guatemala da allora è stato mantenuto nelle stesse condizioni grazie ai regolari interventi e finanziamenti americani, specialmente sotto le amministrazioni Kennedy e Johnson.
Tra gli aspetti del processo di eliminazione della resistenza antifascista bisogna enumerare il reclutamento di criminali di guerra come Klaus Barbie, un ufficiale delle SS che era stato il capo della Gestapo a Lione, così da meritarsi il soprannome di “boia di Lione”. Benché fosse responsabile di molti odiosi crimini, l’esercito americano gli diede l’incarico di spiare i francesi.
Quando finalmente, nel 1982, Barbie fu riportato in Francia per essere processato come criminale di guerra, il suo utilizzo in qualità di agente fu spiegato dal colonnello (in pensione) Eugene Kolb, del Corpo del Controspionaggio dell’Esercito americano: “C’era un gran bisogno delle capacità [di Barbie] dal momento che le sue attività erano state dirette contro il Partito comunista clandestino in Francia e contro la resistenza”,7 nuovo obiettivo della repressione messa in atto dai liberatori americani.
Visto che gli Usa riprendevano da dove i nazisti avevano lasciato, era perfettamente ragionevole utilizzare persone già esperte nella repressione della resistenza. In seguito, quando divenne difficile o impossibile proteggere questi utili amici in Europa, molti di loro (tra cui Barbie) furono fatti emigrare di nascosto negli Stati Uniti o in America Latina, sovente con l’aiuto del Vaticano e di sacerdoti fascisti.
Laggiù diventavano consiglieri militari delle polizie di stato appoggiate dagli Usa, che venivano organizzate, spesso abbastanza scopertamente, sul modello del Terzo Reich. Alcuni divennero anche trafficanti di droga, mercanti d’armi, terroristi e “istruttori” – insegnavano ai contadini latinoamericani le tecniche di tortura perfezionate dalla Gestapo. Alcuni degli allievi del nazisti finirono poi in America Centrale, stabilendo così un legame diretto tra i campi di sterminio e gli squadroni della morte – il tutto grazie all’alleanza del dopoguerra tra gli Usa e le SS.
IL NOSTRO IMPEGNO PER LA DEMOCRAZIA
In tutti i documenti ufficiali, gli analisti politici statunitensi ribadivano la loro convinzione che la minaccia più grave contro il Nuovo Ordine Mondiale guidato dagli americani fosse il nazionalismo del Terzo Mondo – chiamato a volte ultranazionalismo: quei “regimi nazionalistici” che sono sensibili alla “richiesta del popolo di un immediato miglioramento dei bassi livelli di vita delle masse” e di una produzione da destinare alle necessità interne.8
Il loro scopo ultimo, ripetuto più e più volte, era quello di impedire che tali regimi “ultranazionalisti” arrivassero al potere o – se per qualche disgraziata circostanza ci fossero riusciti – di rovesciarli e installare al loro posto governi che favorissero gli investimenti di capitali interni ed esteri, le produzioni per l’esportazione e il diritto delle multinazionali di portare i proventi all’estero. (Questi obiettivi non vengono mai discussi nei documenti top secret, si danno per scontati. Per uno stratega americano, sono un po’ come l’aria che respira.)
L’opposizione alla democrazia e alle riforme sociali non è mai popolare nei paesi vittime dei nostri interventi. È difficile entusiasmare molta gente al riguardo, a parte qualche gruppuscolo legato al mondo americano degli affari che sa di trarne vantaggio.
Gli Usa fanno così affidamento sull’uso della forza, e stringono alleanze con i militari – “i meno antiamericani di tutti i gruppi politici dell’America Latina”, come spiegavano gli strateghi di Kennedy – in modo da poter contare su di loro per soffocare qualsiasi locale movimento popolare che possa sfuggire al controllo.
Gli Usa sono disponibili a tollerare le riforme sociali – come in Costarica, ad esempio – esclusivamente nel caso in cui i diritti dei lavoratori vengano soppressi i si preservi un clima favorevole agli investimenti stranieri. Poiché il governo del Costarica ha sempre rispettato questi due imperativi cruciali, ha avuto il permesso di giocherellare con le sue riforme.
Un altro problema evidenziato più e più volte nei documenti segreti è l’eccessivo liberalismo dei paesi del Terzo Mondo. (Ciò ha costituito un problema soprattutto in America Latina, dove i governi non si impegnavano abbastanza nel controllo ideologico della popolazione e nell’imporre severe limitazioni alle possibilità di movimento delle persone da un paese all’altro, e dove i sistemi legali erano talmente inefficienti che era necessario esibire gli elementi di prova per poter formulare delle incriminazioni.)
Questa è stata una lamentela costante di tutta l’era Kennedy (i documenti dei periodi successivi non sono ancora stati resi pubblici). I liberal kennediani erano adamantini nel perseguire la necessità di superare gli eccessi democratici che consentivano la “sovversione” – termine con cui, ovviamente, indicavano gente che aveva delle idee sbagliate.9
Gli Usa, tuttavia, non mancavano di compatire i poveri. Per esempio, a metà degli anni ’50, il nostro ambasciatore in Costarica raccomandava che la United Fruit Company, in pratica il padrone paese, introducesse alcuni “semplici e superficiali miglioramenti per i lavoratori, in grado di produrre un notevole effetto psicologico”.
Il segretario di Stato, John Foster Dulles, si dichiarò d’accordo, spiegando al presidente Eisenhower che per mantenere la disciplina tra i latinoamericani “bisogna accarezzarli un pochino e fargli pensare che gli vuoi bene”.10
Se si tiene presente tutto ciò, le politiche adottate dagli Usa nel Terzo Mondo sono facili da capire. Noi americani ci siano costantemente opposti alla democrazia quando non siamo riusciti a controllarne gli esiti. Il guaio delle democrazie autentiche è che cadono facilmente preda dell’eresia secondo cui i governi dovrebbero rispondere alle necessità delle popolazioni, invece che a quelle degli investitori americani.
Un studio del sistema inter-americano pubblicato dal Royal Institute of International Affairs di Londra concludeva che, mentre gli Usa proclamano a gran voce di servire la democrazia, il loro vero impegno è tutto dedito alla “impresa privata e capitalista”. Quando vengono minacciati i diritti degli investitori, la democrazia deve sparire; se invece tali diritti vengono salvaguardati, dai governi di assassini e torturatori vanno benissimo.
Con il sostegno degli americani, e talora con il loro intervento diretto, sono stati bloccati o rovesciati governi parlamentari, in Iran nel 1953, in Guatemala nel 1954 (e nel 1963, quando Kennedy appoggiò un colpo di stato militare per sventare la monaccia del ritorno alla democrazia), nelle Repubblica Dominicana del 1963 e nel 1965, in Brasile nel 1964, in Cile nel 1973 e così via. La nostra politica è stata grosso modo la stessa nel Salvador e in molti altri paesi.
I metodi non sono molto piacevoli. Quelli perpetrati dalle truppe dei Contra guidate dagli Usa in Nicaragua, o dai nostri alleati terroristi nel Salvador o in Guatemala, non sono solo normali assassinii. Uno degli elementi principali è la tortura, brutale sadica: sbattere i neonati contro le rocce, appendere le donne per i piedi con i seni tagliati e la pelle del viso scuoiata fino a che muoiono dissanguate, tagliare la testa alla gente e conficcarla in cima ai pali. Lo scopo è soffocare il nazionalismo indipendentista e le forze popolari che potrebbero realizzare una democrazia degna di questo nome.
LA MINACCIA DEL BUON ESEMPIO
Non c’è paese, per quanto insignificante possa essere, che sia esonerato da questo trattamento. Anzi, sono proprio gli stati più deboli e più poveri che spesso scatenano le peggiori reazioni isteriche.
Consideriamo, ad esempio, il Laos negli anni ’60, probabilmente il paese più povero del mondo. La maggior parte dei suoi abitanti non sapeva nemmeno che esistesse qualcosa chiamato Laos: sapeva solo di vivere in un piccolo villaggio che vicino c’era un altro piccolo villaggio.
Ma non appena laggiù iniziò a svilupparsi una rivoluzione sociale a livello di base, Washington sottopose il Laos ad un sanguinoso “bombardamento segreto”, praticamente cancellando dalla faccia della terra vaste regioni abitate nel corso di operazioni che, come fu riconosciuto in seguito, non avevano nulla a che vedere con la guerra che gli Usa stavano combattendo nel Vietnam del Sud.
Grenada ha un centinaio di migliaia di abitanti che producono un po’ di noce moscata, ed è difficile trovarla sull’atlante. Ma quando lì si iniziò a realizzare una modesta rivoluzione sociale, Washington si mosse con grande rapidità per sventare la minaccia.
Dalla rivoluzione bolscevica del 1917 fino al crollo dei governi comunisti in Europa Orientale alla fine degli anni ’80, fu possibile giustificare qualunque attacco americano con la necessità di doversi difendere dalla minaccia sovietica. Perciò quando gli Stati Uniti invasero Grenada nel 1983, il capo degli Stati Maggiori Congiunti spiegò che, nell’eventualità di attacco sovietico in Europa Occidentale, una Grenada ostile avrebbe potuto intercettare le forniture petrolifere dai Caraibi all’Europa e noi non saremmo stati in grado di difendere i nostri alleati in difficoltà. Oggi tutto ciò suona ridicolo, ma questo genere di storie serve a mobilitare il consenso popolare in favore di aggressioni, dell’uso del terrore e della sovversione.
L’attacco al Nicaragua venne ad esempio giustificato con la pretesa che, se “loro” non fossero stati bloccati in patria, avrebbero oltrepassato il confine ad Harlingen, in Texas – che è a soli due giorni di macchina. (Per la gente più smaliziata erano disponibili varianti più sofisticate, ma altrettanto fantasiose.)
In realtà, per quanto riguarda l’economia americana, il Nicaragua potrebbe anche sparire e nessuno se ne accorgerebbe. Lo stesso vale per il Salvador. Ma entrambi sono stati sottoposti ai sanguinosi attacchi degli Usa, al prezzo di centinaia di migliaia di vite umane e di molto miliardi di dollari.
C’è una ragione per tutto ciò. Più debole e più povero è una paese, e più diventa pericoloso come esempio. Se un piccolissimo e povero paese come Granada riesce a garantire una vita migliore al suo popolo, qualche altro stato con maggiori risorse potrebbe chiedersi “perché noi no?”.
Questo è stato vero anche nel caso dell’Indocina, che è piuttosto grande e possiede delle risorse significative. Benché Eisenhower ed i suoi consiglieri abbiano fatto un gran chiasso a proposito del riso, dello stagno e della gomma,la vera paura era che se il popolo dell’Indocina avesse ottenuto indipendenza e giustizia, il popolo della Thailandia avrebbe voluto imitarlo; e se avesse funzionato lì, ci avrebbero provato anche in Malaysia, e ben presto l’Indonesia avrebbe intrapreso il cammino dell’indipendenza, e a quel punto una porzione significativa della Grande Area sarebbe andata perduta.
Se si persegue un sistema globale subordinato agli interessi degli investitori americani, non si può consentire che qualche pezzo se ne vada per conto suo. Colpisce pensare come tutto questo sia chiaramente esplicitato nei documenti ufficiali – persino nei documenti pubblici dell’epoca. Pensiamo al Cile di Allende.
Il Cile è un paese decisamente grande, che possiede numerose risorse naturali ma, anche in questo caso, se fosse divenuto indipendente certamente gli Stati Uniti non sarebbero crollati. Perché invece erano tanto preoccupati? Secondo Kissinger, il Cile era un “virus” che avrebbe “infettato” la regione, e i suoi effetti si sarebbero sentiti fino in Italia.
Nonostante 40 anni di operazioni della Cia, l’Italia aveva ancora un movimento operaio. Un governo socialdemocratico che avesse riportato dei successi in Cile, avrebbe inviato agli elettori italiani il messaggio sbagliato. E se questi si fossero fatti strane idee come, ad esempio, prendere il controllo del loro paese e ridare vita ai movimenti dei lavoratori che la Cia aveva minato negli anni ’40?
Gli strateghi americani, dal segretario di Stato alla fine degli anni ’40, Dean Acheson, fino all’attuale, hanno sempre ammonito che “una mela marcia può guastare il cesto”. Il rischio è che il “marcio” – lo sviluppo sociale ed economico dei paesi subordinati – possa espandersi.
La “teoria della mela marcia” è data in pasto al pubblico come teoria del dominio. La versione usata per spaventare l’uomo della strada vede Ho Chi Minh che sale su una canoa e sbarca in California, e così via. Magari alcuni leader americani credono a queste scemenze – è possibile – ma i lucidi strateghi certamente no. Essi capiscono che l’autentica minaccia viene dal “buon esempio”.
A volte il nocciolo della questione viene spiegato con grande chiarezza. Quando, nel 1954, gli Stati Uniti stavano progettando rovesciare la democrazia guatemalteca, un funzionario del Dipartimento di Stato sottolineò che “il Guatemala è diventato una minaccia sempre più pericolosa per la stabilità dell’Honduras e del Salvador. La sua riforma agraria è una potente arma di propaganda; il suo vasto programma sociale di aiuti ai lavoratori e ai contadini in una lotta vittoriosa contro le classi dominanti e le grandi multinazionali esercita un potente fascino sulle popolazioni vicine all’America Centrale, dove le condizioni sono molto simili”.
In altre parole, quel che vogliono gli Usa è la “stabilità”, intendendo con essa la protezione delle “classi dominanti e delle grandi società straniere”.11 Se tale obiettivo può essere conseguito con i convenzionali strumenti democratici, bene; altrimenti, la “minaccia per la stabilità” rappresentata dai buoni esempi deve essere distrutta prima che il virus infetti qualcun altro.
Ecco perché anche la più piccola macchiolina costituisce una grave minaccia, e può essere necessario cancellarla.
IL MONDO TRIPOLARE
Dall’inizio degli anni ’70, il mondo si sta spostando verso quello che viene chiamato tripolarismo o trilateralismo – tre grandi blocchi economici in concorrenza uno contro l’altro. Il primo blocco fondato sullo yen, con al centro il Giappone e intorno le ex colonie giapponesi.
Negli anni ’30 e ’40, il Giappone chiamava questo territorio “la grande sfera di co-prosperità dell’Asia orientale” ed il conflitto con gli Stati Uniti nacque proprio dal tentativo di Tokio di esercitare su di essa lo stesso genere di controllo che potenze occidentali esercitavano sulle proprie sfere di influenza. Ma dopo la guerra, gli Usa hanno rimodellato la regione sulla base dei loro interessi. A quel punto lo sfruttamento da parte giapponese dell’area non era più un problema: bastava che ciò avvenisse sotto l’ala protettrice americana.
Alcuni hanno sostenuto assurdamente che il fatto che il Giappone sia divenuto un nostro temibile concorrente dimostri in fondo quanto siamo onesti dal momento che abbiamo aiutato al tal punto i nostri nemici nella ricostruzione post-bellica. In realtà non avevamo molta scelta. Se gli Usa non avessero ricostruito l’impero giapponese, mantenendone il controllo (come hanno fatto), sarebbero rimasti fuori dalla regione, consentendo al Giappone e al resto dell’Asia di seguire delle strade indipendenti, fuori dal controllo americano della Grande Area. Ma questo era impensabile.
Per di più, dopo la II guerra mondiale, la possibilità, anche remota, che il Giappone ci facesse concorrenza non era nemmeno presa in considerazione. Si pensava, (con una forte dose di razzismo) che forse, con l’andare del tempo, il Giappone sarebbe stato in grado di produrre tutt’al più qualche ninnolo. La sua ripresa è in gran parte dovuta alla guerra di Corea prima, e a quella del Vietnam poi, che ne stimolarono la produzione portando al Sol Levante immensi profitti.
Tuttavia, nel primo dopoguerra, non mancavano negli Usa strateghi lungimiranti come George Kennan. Questi suggerì che gli Stati Uniti incoraggiassero il Giappone sulla via dell’industrializzazione, ma con un limite: il controllo americano sulle loro importazioni petrolifere. Secondo Kennan, ciò avrebbe conferito un “potere di veto” su Tokio nel caso che questi avesse tentato di uscire dai binari. Gli Usa seguirono questo consiglio, imponendo il loro controllo sulle forniture e le raffinerie giapponesi. Fino agli anni ’70, il Giappone aveva piena padronanza soltanto sul 10% circa dei propri approvvigionamenti petroliferi.12
Questa è una delle ragioni per cui noi americani teniamo tanto al petrolio del Medioriente. Non che ci serva per noi stessi: fino al 1968 in Nordamerica era il maggiore produttore di petrolio del mondo. Quel che vogliamo è tenere saldamente in mano questa leva del potere mondiale, ed essere sicuri che i proventi finiscano soprattutto negli Usa e in Gran Bretagna.
È uno dei motivi per cui abbiamo mantenuto a lungo le nostre basi militari nelle Filippine. Fanno parte del sistema globale di intervento puntato sul Medioriente, inteso a garantire che le forze locali mediorientali non cadano nelle mani dell’”ultranazionalismo”.
Il secondo grande blocco ha base in Europa ed è dominato dalla Germania. Sta facendo grandi passi in avanti con il consolidamento del Mercato Comune Europeo. L’Europa ha una economia più estesa degli Stati Uniti, una popolazione più numerosa, più istruita e più progredita.
Se l’unione si realizzasse pienamente, diventando una potenza integrata, gli Stati Uniti potrebbero perdere la loro supremazia. Ciò appare ancora più probabile ora che l’Europa a guida tedesca si sta mettendo alla testa della ricostruzione dell’Europa Orientale, riconducendola al suo ruolo tradizionale di colonia economica facente parte, in realtà, del Terzo Mondo.
Il terzo blocco è quello dominato dagli Usa e fondato sul dollaro. Di recente si è esteso fino a inglobare il Canada, il più importante partner commerciale degli Stati Uniti e di recente il Messico, grazie agli “accordi di libero scambio” intesi essenzialmente a garantire interessi agli investitori americani e dei loro soci.
Abbiamo sempre dato per scontato che l’America Latina ci appartenesse di diritto. “La nostra piccola regione laggiù, che non ha mai dato fastidio a nessuno”, come la definì Henry Stimson (ministro della Guerra sotto Franklyn Delano Roosevelt e sotto Taft, e poi segretario di Stato con Hoover). La difesa del blocco fondato sul dollaro significa proseguire nella stategia volta a bloccare lo sviluppo indipendente dell’America Centrale e dei Caraibi.13
Se non si capiscono le battaglie contro i nostri rivali dei paesi industrializzati e contro il Terzo Mondo, la politica estera statunitense può sembrare una lunga lista di errori fatti a casaccio, di contraddizioni, di confusioni. Il realtà, i nostri leader hanno svolto i compiti loro assegnati piuttosto bene, entro i limiti del possibile.

L’esportazione della violenza
LA POLITICA DI BUON VICINATO
Siamo stati bravi a mettere in pratica i suggerimenti avanzati da George Kennan? Abbiamo scrupolosamente accantonato ogni preoccupazione per quegli “obiettivi vaghi ed irreali come i diritti umani, il miglioramento del livello di vita, la democratizzazione”? Dopo aver analizzato nel precedente capitolo il nostro “impegno per la democrazia”, affrontiamo ora altri due punti.
Prendiamo l’America Latina, osservando la situazione dal punto di vista dei diritti umani. Un saggio di Lars Schoultz, il più importante accademico specialista dell’argomento, dimostra come “gli aiuti americani tendano a privilegiare in modo sproporzionato quei governi latinoamericani che torturano i loro cittadini”. Non conta quindi lo stato di necessità dei singoli stati, quanto la loro disponibilità a servire gli interessi della ricchezza e del privilegio.14
L’economista Edward Herman nelle sue approfondite ricerche ha evidenziato una stretta correlazione, in tutto il mondo, tra tortura e aiuti americani fornendo la seguente spiegazione: entrambi i fattori contribuiscono, ognuno indipendentemente dall’altro, a migliorare il clima per il mondo degli affari. Rispetto a questo supremo principio morale, questioni come la tortura e l’assassinio impallidiscono fino a perdere ogni significato.
Che cosa dire poi riguardo al miglioramento del livello di vita delle popolazioni latinoamericane? Si presume che l’Alleanza per il Progresso voluta dal presidente Kennedy fosse indirizzata a questo, ma il tipo di sviluppo imposto fu orientato soprattutto verso le esigenze degli investitori americani. L’Alleanza favorì il radicamento e l’estensione di un sistema già esistente, che costringeva l’America Latina a incentivare i raccolti destinati all’esportazione e a ridurre quelli destinati al mercato interno che, come il granoturco e i fagioli, garantiscono la sussistenza della popolazione. I programmi dell’Alleanza hanno portato, ad esempio, ad un aumento nella produzione di carne accompagnato ad una diminuzione del suo consumo interno.
Questo modello di sviluppo basato sull’esportazione agro-alimentare di solito conduce a quel “miracolo economico” per cui il Prodotto Nazionale Lordo cresce mentre gran parte della popolazione muore di fame. Quando si perseguono politiche di questo genere, è inevitabile che maturi un’opposizione popolare, che va quindi soppressa con il terrore e la tortura.15
(L’uso del terrore è profondamente radicato nel nostro carattere. Già nel 1818 John Quincy Adams elogiava la “salutare efficacia” del terrore nel trattare con le “orde di negri e di indiani senza legge”. Lo scrisse per giustificare la furia scalmanata di Andrew Jackson, che in Florida annientò praticamente l’intera popolazione indigena portando la provincia spagnola sotto il controllo assoluto degli Stati Uniti, e la cui saggezza impressionò molto Thomas Jefferson ed altri.)16
Il primo passo da fare è utilizzare la polizia. I poliziotti sono elementi cruciali, in quanto sono in grado di individuare lo scontento sul nascere, e di eliminarlo prima che si rendano necessarie “operazioni chirurgiche di più vasta portata” (come la definiscono i documenti strategici). Se però la chirurgia su larga scala risultasse effettivamente necessaria, si può sempre contare sull’esercito. Se non si riesce più a controllare l’esercito di un paese latino americano – specie se della regione caraibica o centro-americana – significa che è giunto il momento di rovesciare il governo.
Quei paesi che hanno tentato di sottrarsi a questo schema, come il Guatemala con i governi democratico-capitalisti di Arévalo e di Arbenz, o come la Repubblica Dominicana con il regime democratico-capitalista di Bosch, sono diventati l’obiettivo dell’ostilità e della violenta statunitense.
Il secondo passo implica dunque l’uso delle forza militare. Gli Stati Uniti hanno sempre cercato di stabilire rapporti amichevoli con gli eserciti dei paesi stranieri – uno dei modi migliori per rovesciare un governo sfuggito di mano. È così che sono state poste le basi del golpe militare in Cile del 1973 e in Indonesia nel 1965.17
Prima dei colpi di stato, gli americani erano profondamente ostili ai governi cileno e indonesiano, eppure hanno continuato ad armarli. “Mantieniti in buoni rapporti con gli ufficiali giusti, e loro rovesceranno i propri governi per te”. Lo stesso ragionamento stava alla base delle forniture di armi statunitensi all’Iran via Tel Aviv iniziato, secondo gli alti funzionari israeliani coinvolti, nei primissimi anni ’80 e ben noto già nel 1982, cioè prima che sorgesse il problema degli ostaggi.18
Durante l’amministrazione Kennedy, il compito degli eserciti latinoamericani controllati dagli Usa passò dalla “difesa dell’emisfero” alla “sicurezza interna” (cioè, in pratica, la guerra contro la propria popolazione). Questa fatale decisione condusse alla “complicità diretta [degli Usa]” nell’uso di “metodi degni delle squadre di sterminio di Heinrich Himmler”, secondo il giudizio retrospettivo di Charles Maechling, a capo della pianificazione anti-sovversiva dal 1961 al 1966.
L’amministrazione Kennedy spianò la strada al golpe militare brasiliano del 1964, contribuendo a distruggere la democrazia di quel paese che stava diventando troppo indipendente. Gli Usa appoggiarono entusiasticamente il putsch, mentre i generali istituivano uno stato di sicurezza nazionale di stampo neo-nazista, con torture, repressione, eccetera. Ciò ispirò una serie di sviluppi analoghi in Argentina, Cile e un po’ ovunque nel sub-continente, che si susseguirono dalla metà degli anni ’60 fino alla fine degli anni ’80 – un periodo terribilmente sanguinoso.
(Io penso che, dal punto di vista legale, ci sarebbero motivi per chiedere l’impeachment di tutti i presidenti americani dalla II guerra mondiale in poi. Quelli che non sono stati criminali di guerra esse stessi, quanto meno sono stati coinvolti in gravissimi delitti.)
Gli eserciti generalmente portano il paese al disastro economico, spesso seguendo le indicazioni dei consiglieri americani, e alla fine decidono di scaricare il problema affidandone l’amministrazione ai civili. Grazie ai nuovi strumenti oggi disponibili, infatti, non è più necessario il dominio diretto dei militari – ad esempio, attraverso i controlli esercitati dal Fondo Monetario Internazionale (che, come la Banca Mondiale, presta al Terzo Mondo fondi provenienti in realtà dalle grandi potenze industriali).
In cambio di prestiti, il Fmi impose al paese la “liberalizzazione”: un’economia aperta alla penetrazione e al controllo dei capitali stranieri, tagli molto drastici ai servizi per la popolazione, eccetera. Queste misure mettono ancor più saldamente il potere nelle mani delle classi agiate e degli investitori (“stabilità”) e rafforzano la classica struttura a due livelli delle società del Terzo Mondo – gli ultraricchi (con una classe relativamente agiata di professionisti al loro servizio) e un’enorme massa di gente poverissima e sofferente.
L’indebitamento e il caos economico lasciati dai militari costituiscono la garanzia che le regole del Fondo Monetario verranno seguite scrupolosamente – a meno che le forze popolari non tentino di entrare nell’arena politica, nel qual caso i militari potrebbero essere costretti a ripristinare la “stabilità”.
Il Brasile è, da questo punto di vista, un caso istruttivo. È talmente dotato di risorse naturali, che dovrebbe essere uno dei paesi piò ricchi del mondo. Inoltre può contare su un elevato grado di sviluppo industriale. Ma, grazie soprattutto al golpe del 1964 e al tanto lodato “miracolo economico” che ad esso ha fatto seguito (per non parlare di torture, omicidi e altri metodi di “controllo della popolazione”), la situazione di molti brasiliani è oggi paragonabile a quella degli abitanti dell’Etiopia – e molto peggiore, ad esempio, di quella dell’Europa Orientale.
Il Ministero dell’Istruzione Pubblica brasiliano riferisce che oltre un terzo del bilancio scolastico viene speso per i pasti dei bambini, dal momento che la maggior parte degli studenti che vanno alle scuole statali, o mangia a scuola o non mangia affatto.
Secondo South (una rivista economica specializzata sul Terzo Mondo) il tasso di mortalità infantile in Brasile è superiore a quello dello Sri Lanka. Un terzo della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e “sette milioni di bambini abbandonati chiedono l’elemosina, rubano, sniffano colla nelle strade. Per decine di milioni, la casa è una baracca in una favela… o, sempre più spesso, un fazzoletto di terra sotto un ponte”.
Questo è il Brasile, una delle regioni del mondo più ricche di risorse naturali.
La situazione è simile in tutta l’America Latina. Solo in America Centrale, il numero delle persone uccise dalle forze appoggiate dagli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ’70 sfiora le 200.000: i movimenti popolari che invocavano democrazia e riforme sociali sono stati decimati. Questi risultati conferiscono agli Usa il titolo di “ispiratori del trionfo della democrazia nella nostra era”, per usare l’ammirata espressione del New Republic, giornale liberal. Tom Wolfe ci dice che gli anni ’80 sono stati “una delle più grandi età dell’oro mai vissute dall’umanità”. Come diceva Stalin, soffriamo di “vertigini di successo”.19
LA CROCEFISSIONE DEL SALVADOR
Per molti anni, nel Salvador, i dittatori insediati e sostenuti dal nostro governo hanno praticato la repressione, la tortura e l’omicidio, un argomento che qui da noi non ha suscitato alcun interesse. Una storia che di fatto praticamente non è mai stata raccontata dai giornali. Prima della fine degli anni ’70 un paio di cose iniziarono a preoccupare il nostro governo.
La prima era che Somoza, il dittatore del Nicaragua, stava perdendo il controllo della situazione. Gli Usa rischiavano di restare senza una delle basi più importanti da cui esercitavano i loro interventi nella regione. Il secondo rischio era ancora più preoccupante. Nel Salvador, negli anni ’70, si assisteva a quelle che venivano chiamate “organizzazioni popolari” – associazioni di contadini, cooperative, sindacati, gruppi di studio sulla Bibbia delle comunità religiose di base che si trasformavano in movimenti di solidarietà, eccetera. Insomma, si profilava la minaccia della democrazia.
Nel febbraio del 1980 l’arcivescovo di San Salvador, Oscar Romero, scrisse una lettera al presidente Carter nella quale lo supplicava di non mandare aiuti militari alla giunta che governava il paese. Quegli aiuti, scriveva, sarebbero serviti ad “acuire l’ingiustizia e la repressione contro le organizzazioni popolari” che stavano lottando “per il rispetto dei più elementari diritti umani” (il che, ovviamente, per Washington non era una novità).
Alcune settimane più tardi, l’arcivescovo Romero fu assassinato mentre celebrava la messa. La responsabilità di questo assassinio (e di innumerevoli altre atrocità) viene fatta generalmente ricadere sul neonazista Roberto D’Aubuisson che era il “leader a vita” dell’Arena, il partito che oggi governa il paese. Molti dei suoi membri, come il presidente salvadoregno Alfredo Cristiani, erano costretti a giurargli fedeltà col sangue.
Dieci anni dopo, migliaia di contadini e di poveri delle città, insieme a molti vescovi stranieri, presero parte a una messa commemorativa ma gli Stati Uniti brillarono per la loro assenza. La Chiesa salvadoregna ha avviato formalmente la causa per la santificazione di Romero.
Inutile dire che la stampa del paese che ha finanziato e addestrato gli assassini di Romero ha trattato la vicenda con scarsissima attenzione. Il New York Times, il “giornale dei fatti”, non ha pubblicato nemmeno un editoriale o un commento sull’assassinio, né quanto è accaduto né negli anni seguenti, e non ha dato notizia, né con un commento né in altro modo, alla commemorazione.
Il 7 marzo del 1980, due settimane prima dell’assassinio, nel Salvador era stato dichiarato lo stato d’assedio, ed era iniziata in forze la guerra contro la popolazione civile (con il sostegno e il coinvolgimento costante degli Usa). Il primo attacco su larga scala provocò una terribile strage al Rio Sumpul, un’azione militare coordinata nella quale gli eserciti honduregno e salvadoregno insieme massacrarono almeno 600 persone. Ci furono bambini fatti a pezzi con il machete, e donne torturate e poi annegate. Per giorni e giorni furono recuperati dal fiume pezzi di cadavere. Grazie ad alcuni osservatori della chiesa, la notizia di riseppe immediatamente, ma i media di regime negli Usa non ritennero che valesse la pena di riportarla.
I contadini furono le principali vittime di questa guerra, insieme a sindacalisti, studenti, preti ed a chiunque fosse sospettato di lavorare nell’interesse del popolo. Nell’ultimo anno della presidenza Carter, il 1980, in numero dei morti raggiunse i 10.000, e salì a 13.000 l’anno dopo, quando a prendere il comando furono i reaganiani.
Nell’ottobre del 1980 il nuovo arcivescovo condannò la “guerra di sterminio e genocidio contro una popolazione civile indifesa” condotta dalle forze di sicurezza. Due mesi più tardi, le stesse forze ricevettero un encomio per il loro “valoroso servizio al fianco del popolo contro la sovversione” dal nuovo presidente della giunta, il civile José Napoleon Duarte, beniamino degli americani “moderati”.
Il ruolo del “moderato” Duarte era di fare la foglia di fico per coprire il governo dei militari, e assicurare loro la continuità dei fondi in arrivo dagli Usa, dopo che le forze armate avevano violentato e ucciso quattro suore americane. Un eccidio che negli Stati Uniti aveva suscitato qualche protesta: una cosa è macellare i salvadoregni ma, nell’ottica delle pubbliche relazioni, violentare e assassinare delle monache americane è decisamente un errore. I media cercarono di eludere e minimizzare l’accaduto, conformandosi all’atteggiamento dell’amministrazione Carter e della commissione d’inchiesta da lui istituita.
Appena arrivati, i reaganiani si spinsero oltre, cercando di giustificare l’atrocità: in particolare ci provarono il segretario di Stato Alexander Haig e l’ambasciatore presso l’Onu, Jeane Kirkpatrick. Ma si ritenne ugualmente opportuno celebrare un processo-farsa alcuni anni più tardi, per scagionare la giunta assassina – e, naturalmente, il suo datore di lavoro.
I giornali indipendenti del Salvador, che avrebbero potuto raccontare tutte queste atrocità, erano stati distrutti. Benché fossero filogovernativi e a favore della grande finanza, erano ancora troppo indisciplinati per i gusti dei militari. Al problema si provvide nel biennio 1980-81, quando il direttore di uno di essi fu assassinato dalle forze di polizia; l’altro andò in esilio. Come al solito, anche questi fatti furono considerati troppo insignificanti per meritare più di qualche riga sui giornali americani.
Nel novembre del 1989 furono uccisi dell’esercito sei sacerdoti gesuiti, la loro cuoca e la figlia di quest’ultima. Quella stessa settimana vennero assassinati almeno altri 28 civili salvadoregni, tra cui il leader dell’associazione delle universitarie, nove membri di una cooperativa agricola indiana e dieci studenti universitari.
Le telescriventi diffusero un servizio del corrispondente di Ap, Douglas Grant Mine, il quale riferiva di come i soldati avessero fatto irruzione in un quartiere operaio della capitale, San Salvador, e dopo aver fermato sei uomini e persino un ragazzino di 14 anni, li avessero fatti allineare contro un muro e fucilati sul posto. “Non erano sacerdoti né attivisti per i diritti umani, quindi la loro morte è passata quasi del tutto inosservata”, scriveva Mine – come, del resto, il suo articolo.
Ad assassinare i gesuiti era stato l’Atlacatl Battalion, un’unità specializzata creata, addestrata ed equipaggiata dagli Stati Uniti. Il reparto era stato creato, nel marzo del 1981, il seguito all’arrivo nel Salvador di quindici specialisti dell’anti-sommossa provenienti dalla Scuola delle Forze Speciali dell’Esercito degli Stati Uniti. Fin dall’inizio il battaglione venne impiegato per le esecuzioni di massa. Un istruttore americano così ha descritto i suoi soldati: “Particolarmente feroci… abbiamo sempre fatto una gran fatica a convincerli a prendere i prigionieri tutti interi, non solo le loro orecchie”.
Nel dicembre del 1981 il Battalion prese parte ad un’operazione nella quale furono massacrati oltre mille civili, in un’orgia di omicidi, stupri e incendi. Più tardi fu coinvolto nel bombardamento di alcuni villaggi e nella strage di centinaia di civili tramite fucilazione, annegamento e altri metodi. La stragrande maggioranza delle vittime erano donne, bambini ed anziani.
Poco prima dell’uccisione dei gesuiti, l’Atlacatl Battalion aveva partecipato ad un corso di aggiornamento tenuto dalle Forze Speciali americane. Questo schema di è ripetuto lungo l’intera esistenza del Battalion: alcuni dei peggiori massacri hanno avuto luogo quando lo squadrone era fresco dell’addestramento americano.
Nella “democrazia implume” del Salvador, ragazzini di appena 13 anni venivano rastrellati nelle baraccopoli e nei campi profughi e costretti a diventare soldati. Venivano indottrinati con i rituali adottati dalle SS naziste, comprendenti stupri e maltrattamenti brutali, per prepararli ai delitti da commettere, spesso a forti tinte sessuali o sataniche.
La natura dell’addestramento nell’esercito salvadoregno è stata descritta da un disertore, che ha ottenuto asilo politico in Texas nel 1990 benché il Dipartimento di Stato avesse chiesto che fosse rispedito in patria. (La Corte non rivelò il suo nome per proteggerlo dagli squadroni della morte del Salvador.)
Secondo il disertore, le reclute venivano costrette a uccidere cani e avvoltoi mordendoli alla gola, poi dovevano strappare loro la testa; stavano a guardare mentre i soldati torturavano e uccidevano i sospetti dissidenti – cioè mentre strappavano unghie, tagliavano teste, facevano a pezzi i cadaveri e giocavano con le membra strappate.
In un altro caso César Vielman Joya Martinez, che ha ammesso di essere stato un membro degli squadroni della morte che agiscono di concerto con l’Atlacatl Battalion, ha ricostruito nei dettagli il coinvolgimento nella “guerra sporca” dei consiglieri americani e del governo salvadoregno. L’amministrazione Bush ha tentato in tutti i modi di metterlo a tacere e di rimandarlo verso una morte quasi certa in Salvador, nonostante le proteste delle organizzazioni per i diritti umani e le richieste del Congresso di poter ascoltare la sua testimonianza. (Un trattamento simile è stato riservato anche al principale testimone dell’assassinio dei gesuiti.)
Il risultato dell’addestramento militare salvadoregno è descritto in modo visivamente efficace dal sacerdote cattolico Daniel Santiago, – che lavora in Salvador – in un articolo per il giornale dei gesuiti, America. Santiago racconta di una contadina che un giorno, tornando a casa dai campi, aveva trovato i suoi tre figli, sua madre e sua sorella seduti attorno al tavolo, ognuno con la propria testa staccata dal corpo e posata accuratamente sul tavolo, davanti al rispettivo cadavere, e con le mani posate sul capo, “come se ogni corpo stesse carezzando la propria testa”.
Gli assassini, appartenenti alla Guardia Nazionale salvadoregna, avevano incontrato qualche difficoltà nel tener ferma la testa di un bambino di diciotto mesi, per cui le mani le erano state inchiodate sopra. Un grosso sacchetto di plastica pieno di sangue era disposto con gusto al centro del tavolo.
Secondo il reverendo Santiago, scene macabre di questo tipo sono tutt’altro che insolite.
“Gli squadroni della morte nel Salvador non si accontentano di assassinare le persone – le decapitano, e infilzano le loro teste sulle picche, che poi usano per abbellire il paesaggio. La polizia salvadoregna non si limita a squartare gli uomini: recidono loro i genitali e glieli infilano in bocca. Alla Guardia Nazionale non basta stuprare le donne salvadoregne: i loro ventri vengono tagliati e usati per coprire i loro volti. Non è sufficiente uccidere: vengono appesi al filo spinato finché le carne si stacca dalle ossa, mentre i genitori sono costretti a guardare”.
Padre Santiago continua fino a sottolineare come la violenza di questo tipo abbia subito un forte incremento quando la Chiesa iniziò a dar vita ad associazioni di contadini e a gruppi di aiuto nel tentativo di organizzare la povera gente.
La nostra politica in Salvador ha avuto un pieno successo. Le organizzazioni popolari sono state decimate, esattamente come previsto da monsignor Romero. Decine di migliaia di persone sono state ammazzate, e oltre un milione sono state costrette alla fuga. Questo è un degli episodi più sordidi nella storia degli Stati Uniti – e sì che la concorrenza non manca di certo.
UNA LEZIONE AL NICARAGUA
Negli anni ’70 non fu solo il Salvador ad essere ignorato dalla stampa filogovernativa americana. Nei dieci anni precedenti il 1979, anno in cui fu rovesciata la dittatura di Anastasio Somoza, le televisioni americane – tutti i network – dedicarono esattamente un’ora al Nicaragua e questa fu interamente destinata al terremoto che colpì Managua nel 1972.
Dal 1960 al 1978, il New York Times ha pubblicato tre editoriali sul Nicaragua. Non che laggiù non succedesse niente – solo che non era importante. Il Nicaragua non interessava a nessuno, fintanto che il tirannico regime di Somoza non corse pericoli.
Quando quel regime fu realmente minacciato, dai sandinisti alla fine degli anni ’70, gli Stati Uniti dapprima tentarono di istituire il cosiddetto “Somocismo senza Somoza” – di preservare cioè l’intero, corrotto sistema, ma con qualcun altro al comando. Poiché questo non funzionò, il presidente Carter cercò di continuare ad utilizzare almeno la Guardia Nazionale di Somoza come base del potere americano.
La Guardia Nazionale di era sempre fatta notare per la brutalità ed il sadismo. Nel giugno del 1979 aveva commesso eccidi di massa nella guerra contro i sandinisti, bombardando i quartieri popolari di Managua e uccidendo decine di migliaia di persone. A quel punto, l’ambasciatore americano mandò un cablogramma alla Casa Bianca nel quale spiegava che sarebbe stato “imprudente” chiedere la sospensione dei bombardamenti, in quanto ciò avrebbe potuto interferire con la politica di mantenere al potere la Guardia e di sconfiggere i sandinisti.
Anche l’ambasciatore Usa presso l’Oas (“Organizzazione degli Stati Americani”) si espresse in favore del “Somocismo senza Somoza”, ma l’Oas respinse immediatamente il suggerimento. Pochi giorni dopo, Somoza si precipitò a Miami con quel che restava del tesoro nazionale del Nicaragua, e la Guardia fu costretta a cedere.
L’amministrazione Carter favorì la fuga dei suoi comandanti imbarcandoli su aerei con i contrassegni della Croce Rosse (un vero crimine di guerra) e iniziò a ricostruire la Guardia presso i confini del Nicaragua. Come base fu usata anche l’Argentina. (A quel tempo questa era governata da generali neo-nazisti, i quali furono costretti a sospendere momentaneamente il loro lavoro – consistente nel torturare e uccidere il loro stesso popolo – per dare una mano a ricostruire la Guardia Nazionale nicaraguense i cui membri sarebbero presto stati chiamati contra, o “combattenti per libertà”.)
Reagan si servì di questi soldati per scatenare contro il Nicaragua una guerra di terrorismo su vasta scala, insieme ad un assedio economico che si rivelò anche più letale. Inoltre, altri paesi furono oggetto di intimidazioni affinché non mandassero aiuti alla popolazione del Nicaragua.
Eppure, nonostante i livelli astronomici raggiunti dal sostegno militare, gli Usa non riuscirono a creare un valido esercito in grado di operare in Nicaragua. È un fatto che dà da pensare. Nessun autentico movimento di guerriglia ha mai potuto contare su risorse anche lontanamente paragonabili a quelle fornite ai Contra dagli Stati Uniti. Probabilmente, con finanziamenti di quel genere, sarebbe stato possibile dar vita ad una insurrezione guerrigliera persino nelle regioni montuose degli Usa.
Perché l’America è arrivata fino a questo punto con il Nicaragua? L’organizzazione internazionale per lo sviluppo, Oxfam, ne ha spiegato il vero motivo dichiarando che, secondo l’esperienza maturata nei 76 paesi in via di sviluppo in cui opera, “il Nicaragua… costituiva un’eccezione per le energie profuse dal governo nel… migliorare le condizioni di vita della popolazione e nell’incoraggiarne la partecipazione attiva al processo di sviluppo”.20
Dei quattro stati centro-americani in cui l’Oxfam ha una presenza significativa (in Salvador, Guatemala, Honduras e Nicaragua), solo in quest’ultimo si registrava un autentico sforzo per riparare alle ingiustizie del latifondismo e per estendere l’assistenza sanitaria, l’istruzione ed il sostegno all’agricoltura alle famiglie contadine più povere.
Alche altre organizzazioni raccontavano una storia quasi identica. All’inizio degli anni ’80, la Banca Mondiale dichiarò che i propri progetti “in alcuni settori avevano conosciuto in Nicaragua un successo straordinario, più che in qualsiasi altro posto del mondo”. Nel 1983, la Inter-American Development Bank concludeva che “il Nicaragua aveva compiuto progressi notevoli nel settore sociale, ponendo le basi per uno sviluppo socio-economico a lungo termine”.
Il successo delle riforme sandiniste terrorizzò gli strateghi americani i quali si rendevano conto che – come ebbe a dire José Figueres, il padre della democrazia in Costarica – “per la prima volta, il Nicaragua ha un governo che si preoccupa della sua gente”. (Benché Figueres sia stato per quarant’anni la più importante personalità democratica dell’America Centrale, le sue inaccettabili capacità di osservare in profondità il mondo reale sono state accuratamente censurate dai media americani.)
L’odio suscitato dal tentativo sandinista di utilizzare le risorse in favore dei poveri (e soprattutto dalla sua riuscita) raggiunse livelli inauditi. Era un sentimento condiviso più e meno da tutti gli uomini politici americani, e finì per diventare una vera e propria frenesia.
“Trasformeremo il Nicaragua nell’Albania del Centro America” – povera, isolata e politicamente estremista – aveva proclamato già nel 1981 un membro del Dipartimento di Stato: la speranza era che il sogno sandinista di creare un nuovo, esemplare modello politico

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