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Giudice, carnefice e
vittima. Tutti e tre presenti. Si era rivolto direttamente a lui, doveva essere
fermato.
-Mi deve aiutare. –
Il giudice ascoltò il
racconto, era incredulo, ad ogni passaggio più cruento della storia chiudeva
gli occhi, sembrava che recitasse un Pater Noster, poi li riapriva e lo
invitava a proseguire il racconto.
-E’ terribile quello che mi
stai dicendo. -
-Mi aiuti la prego. -
Alla fine lo aiutò..
Il luogo dell’incontro fu
nella chiesa di San Giuseppe dei Teatini. Questa chiesa era stata il suo
rifugio, la sua casa. Ricordava, quando scappò il giorno che morì sua madre,
dietro di lui si vedevano le fiamme che ardevano il palazzo e la scia delle sue
lacrime. Corse senza fermarsi, senza meta, poi nel cuore di Palermo trovò per
caso quella chiesa aperta. Quando entrò rimase abbagliato dalla sua bellezza.
La chiesa infatti rispondeva perfettamente al motto dei Teatini: Sia povera
la cella, sobrio il vitto, ma ricca la chiesa. Non aveva mai visto nulla di
simile, la chiesa che frequentava era semplice, spoglia, fredda. Non sapeva
nemmeno cosa fosse il barocco, e non poteva immaginare che dentro
quell’edificio, dall’esterno sobrio e incassato in un arco dei Quattro Canti,
poteva esserci all’interno un simile tesoro. Dentro provò una sensazione di pace.
Pensava che rinchiudendosi lì, avrebbe potuto cancellare tutto il dolore fino a
quel momento cumulato. Padre Arturo, quello che ora aveva assunto nella sua
immaginazione le vesti del giudice, lo aveva accolto, e gli aveva dato
un’istruzione. Spesso rimaneva a contemplare la grande cupola dove sono
raffigurati i cherubini, i santi e gli arcangeli, pensava di aver trovato la
pace.. invece non era così.
In quell’incontro il
passato e il presente si fusero, in realtà non riuscì a parlare, era sempre
stato un debole, lo sapeva.
Il giudice gli disse che
ora toccava a lui, solo lui poteva arrestare il male. La vittima era
silenziosa, più silenziosa del carnefice.
Lasciò i due uomini,
abbandonò la sacrestia attraversò con passo sicuro la navata principale, prima
di uscire dalla porta laterale della chiesa, quella che si affaccia su via
Maqueda e che gode della visuale della fontana della Vergogna, si asciugò la
fronte dal liquido ottenuto da sudore e umidità condensata con un guanto.
Ripercorse via Maqueda con lo stesso passo con il quale la percorse la volta
che aveva lasciato steso per terra l’ingegner Leone. Però questa volta, si
sentiva più leggero.
“So chi è mio padre..”
“Michè vai in chiesa è
Domenica.”
Non voleva andare in
chiesa, non voleva.
“No, mamma.”
“Dai Michè, ci devi andare,
per favore Michè.”
Non avrebbe più voluto
andare in chiesa.
“Guarda cosa ti ho regalato
per Pasqua, vedi è una macchina fotografica. Ti piace? Dai adesso vai in
chiesa.”
Così, un ragazzino che non
aveva altro che le sue lacrime e una macchina fotografica nuova, si incamminava
a passo lento verso la chiesa il giorno di Pasqua.
“Ora è tutto finito.”
Mentre ricordava, il sangue
del giudice scendeva dallo stomaco e andava ad inzuppare un vecchio tappeto
rosso porpora.
“Ora tutto è finito”, ma
questa volta non aveva ne sorrisi da mostrare ne paure a turbarlo, andava verso
l’ignoto, sentendo di aver fatto la scelta giusta.
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