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giovedì 27 febbraio 2014

IL GIOCO DEL RAGNO CAPITOLO 21

                                          21

La splendida mattinata di sole, l’aveva invogliato ad uscire, a prendere un po’ d’aria. Si aggirava tra le bancarelle del mercato di Ballarò, vagava a passo lento senza meta. Girava intorno ai banchetti pieni di frutta, il colore lo attirava. Il mercato era linfa vitale che scorreva nelle vene di una città che ancora sonnecchiava. Sentiva le catene aromatiche, rilasciate dalla frutta esposta, salirgli al cervello. Provava una sensazione che non viveva più da tempo: era rilassato. Doveva non pensare.
Percorse tutto il mercato, oltrepassò l’ultima bancarella, continuò ad andare avanti, fino a che non si trovò davanti alle inferriate del cortile di una scuola elementare. Si accostò al muretto e appoggiò la testa su due sbarre di ferro che erano parte della ringhiera. Vide all’interno dei bambini che facevano ricreazione, chi giocava, chi mangiava, tutti sotto lo sguardo attento delle maestre.
“Chi è tuo padre Michè?” c’erano i bambini cattivi quelli, come diceva la sua amica, che venivano trattati male dalle famiglie. Ma poi apparvero gli altri.
Gli altri non erano bambini ma nemmeno uomini, ed erano diversi. Non erano ignoranti come le capre, apparivano sistemati, educati, sapevano parlare e non erano volgari. Erano diversi.. lui rimaneva spesso ad osservarli a spiarli.
Erano cattivi? Cattivi?! Sì, lo erano, anche se a volte gli capitò di ammirarli, gli capitò anche di pensare che sarebbe potuto diventare come loro.
No Michè sono cattivi. Alla sua migliore amica non disse mai nulla di loro. Avrebbe voluto parlargliene, ma non se la sentiva. E poi.. il tempo portò via la loro amicizia. Aveva il desiderio di rincontrarla, non l’avrebbe più rivista, lo sapeva benissimo.
Non si staccò mai più da loro. Non lo sapevano, ma lui era entrato nelle loro vite.. o forse no.
Li studiava, poi li abbandonava, poi ritornava sempre.
“Michè ora sai chi è tuo padre?”
“Sì, adesso lo so”.
Alzò lo sguardo, gli parve come se una maestra gli rivolgesse un saluto. Si girò e tornò indietro. Ripercorse la stessa strada, doveva distrarsi di nuovo.
Era di nuovo al mercato, sempre più affollato. Sentiva l’odore del sangue, si voltò a destra e vide su un bancone di macelleria, la testa di un capretto spellato fissarlo, mentre il macellaio stava tagliando con una grossa mannaia il suo corpo. Sangue. Girò lo sguardo, provava nausea. Sangue. Si guardò le mani. Sangue.
Procedeva a passo incerto. “Sei diventato strumento del male. Sei uno strumento del male”.
La testa gli girava, sentiva le scarpe scivolare in un liquido. Si voltò guardò in basso, aveva lasciato una striscia si sangue sulla strada. Si fermò si sedette sul marciapiede. La testa girava sempre di più, vide le suole delle scarpe, erano pulite, e nella strada non c’era nessuna striscia di sangue. La nausea era sempre più forte. Perse i sensi si accasciò al suolo.
-Sta male? Ce la fa a rialzarsi? –
-Sì, sì grazie. Ce la faccio. –
-Ma ha bisogno di qualcosa? –
- No no, sto bene, sto bene, grazie. –
Si rialzò, si asciugò la fronte sudata col fazzoletto.

L’unica cosa che forse poteva fare c’era. L’unico modo per essere neutralizzato, per bloccare quel male che stava facendo dilagare.

sabato 22 febbraio 2014

PAROLA AL LETTORE: TRENO DI NOTTE PER LISBONA recensione di NeoArgo





"Credevo davvero che non ci saremmo persi mai. Mi sembrava impossibile. Una volta ho letto da qualche parte: le amicizie fanno il loro tempo e finiscono. Non nel nostro caso, pensai allora, non nel nostro caso."  















Finendo l’ultima pagina di treno di notte per Lisbona, si ha come la sensazione che qualcosa non sia ancora concluso, che l'intera vicenda aspetti ancora la fine; non è facile parlare di questo libro, che ho letto con calma, senza fretta, godendomi ogni momento. Non non è per niente facile, parlare di Treno di Notte per Lisbona. 
In una mattina come tante altre il professor Mundus, così chiamato per la sua vena artistica che lo porta ad apprezzare e insegnare le lingue morte, ha un incontro con il destino, travestito da una donna, che sul ciglio di un ponte, dà l’impressione di volersi buttare giù e farla finita con il mondo intero. 
Voleva davvero buttarsi giù dal ponte la donna trattenuta quella mattina da Raimund Gregorius, insegnante svizzero di latino, greco ed ebraico? Gregorius non sa nulla della donna sennonché era portoghese. La mattina dopo, complice la scoperta in una libreria antiquaria del libro di un enigmatico scrittore lusitano, l'altrimenti prevedibilissimo professore prende un treno diretto a Lisbona, dove spera di rintracciare l'autore. Da questo momento decolla una vicenda che costringerà Gregorius a confrontarsi con le contraddizioni degli affetti e gli orrori della Storia in un modo che mai avrebbe potuto immaginare nella sua rassicurante Berna.


                                                                 NeoArgo

mercoledì 19 febbraio 2014

IL GIOCO DEL RAGNO CAPITOLO 20

                                           20

Due giorni dopo io e Serena ci trovavamo di nuovo insieme, l’occasione non era delle più allegre. Seduti sulla stessa panca della chiesa della Magione. Il funerale dell’ingegnere Tommasini, si celebrò giovedì mattina due giorni dopo il suo assassinio. In chiesa era presente la signora Rosa, il figlio con sua moglie e i nipoti. Seduti più indietro, qualche vicino di casa e pochi amici, ancora più indietro qualche giornalista. Nell’ultima fila io e Serena. Non ci eravamo più rivisti da quella notte. Dopo che riuscii a sfuggire dalle fiamme dell’appartamento dell’ingegnere tornai a piedi a casa, scambiai qualche parola al telefono con Serena, lei aveva accompagnato la signora Rosa prima al commissariato e poi nella mattinata a casa della vicina. Trascorsi quello che restava della notte in bianco, alla sette e mezza ero già al lavoro e appena tornai a casa crollai per il sonno. Adesso increduli partecipavamo al funerale.
La mattinata era fredda, anche se un bel sole risplendeva su un cielo senza nuvole. La funzione fu breve, fatte le condoglianze alla famiglia, ci congedammo dalla signora Rosa con un abbraccio che voleva dire tanto. Lasciata la chiesa ci sedemmo su una panchina del parco che sorgeva davanti alla Magione. Sentivamo ancora il peso che quella nottata ci aveva lasciato, Serena ne portava i segni in viso, aveva due profonde occhiaia.
-La polizia ti ha fatto domande ieri notte? - le chiesi prendendole una mano.
-No assolutamente. Ho solo detto che ero un’amica della signora e che l’avevo accompagnata per aiutarla a cercare l’ingegnere. Poi agli inquirenti non ha menzionato né il mio né il tuo nome. –
-Capisco. –
-Tu invece hai rischiato vero? Ma come ti è venuto in mente di andare a casa sua? –
-Volevo arrivarci prima dell’assassino, forse avrei potuto recuperare qualche cosa che poteva esserci d’aiuto per fare chiarezza, e invece lui era già lì e ha bruciato tutto.. guarda l’unica cosa che ho potuto salvare dalle fiamme. –
Estrassi dalla tasca, la foto che avevo preso dal cassetto della scrivania dell’ingegnere, e gliela porsi, puzzava ancora di benzina.
-Non capisco.. ma questo sei tu! –
-Sì, è uguale ad una di quelle che ricevetti a Gennaio in forma anonima. Serena credo che sia stato l’ingegnere a scattarle e a mandarmele. –
-Ma perché? Per via di quella maledetta foto che avevi preso da casa sua? –
-Non lo so.. può darsi.. forse mi aveva scambiato per qualcun 
altro. –
So chi sei.. l’ingegnere mi aveva pedinato, lui mi aveva mandato la busta contenente quelle foto, e sempre lui mi lasciò sotto il portone di casa il foglio.. So chi sei. Ricordo quando venne a casa mia e mi scrutò come se mi stesse analizzando. Non parlava, mi fissava solamente.. fino a quando non si sciolse, e mi parlò della sua vita della sua famiglia, della sofferenza che provava per la lontananza della figlia. Si era confidato con me, perché aveva capito che non ero io quello che stava cercando.
Poi dopo un po’ di tempo mi ha detto che era tutto a posto che sicuramente eri un bravo ragazzo..” così aveva detto la signora Rosa.
-Andrea pure io ho una cosa da mostrarti, riguarda la notte della morte di Tommasini.. –
Aveva tra le mani un foglio stropicciato, me lo porse.
-L’ho trovato accanto al corpo, l’ho messo in tasca e poi me ne sono dimenticata, l’indomani mi sono accorta che è una cosa importante, un altro messaggio scritto dall’assassino. –
Ora ricordavo.. mi era parso quella notte di scorgere un foglio tra le canne del letto del fiume. Lo stirai e lessi:

IN GIRUM IMUS NOCTE, ECCE ET CONSUMIMUR IGNI

-Sembrerebbe latino.. ma perché non l’hai dato alla polizia? –
-La notte dell’omicidio l’ho dimenticato in tasca, il giorno dopo avevo paura..-
-Paura?-
-Sì, paura.. paura della reazione della polizia, paura di finire in mezzo a tutta questa storia, paura di.. Andrea quello che ho visto è stato scioccante, la morte di un professore con il quale ho parlato due giorni prima, la morte di Tommasini, quel sangue, tu che sei stato minacciato e che ti sei salvato per miracolo.. –
- Si, ma capisci che potrebbe essere importante per le indagini? Ma poi che cavolo vuole dire questa frase? –
-Suona più o meno così – disse sistemandosi una ciocca di capelli – nella notte andiamo in giro, ecco si consuma con il fuoco. –
- Ma che vuol dire? Non ha molto significato. –
-Perché c’è qualcosa che in questa storia ha significato? –
Serena abbassò la testa, una lacrima le stava scendendo dal viso. Solo io potevo capire quanta tensione aveva addosso. La abbracciai e lei si strinse forte a me. Tra le mani avevo quel foglietto. L’unica cosa che mi faceva venire in mente erano le fiamme che avevo visto due sere prima.
-Posso prenderlo? – le chiesi – forse so chi mi può aiutare a capire cosa c’è scritto. -
-Certo tienilo pure. –
-Serena devo incontrare Lo Vecchio, e dargli la foto. -   
La mia amica si ritrasse dal mio abbraccio, il suo volto assunse un’espressione preoccupata, una luce cupa calò sui suoi occhi. Cominciò a torturarsi i capelli intrecciandoli e tirandoseli con le dita. La bocca si irrigidì, stava per parlare quando l’anticipai.
-Lo so.. mi espongo completamente in questo modo. –
-Sai che lui potrebbe essere uno degli ultimi elementi di questa catena di omicidi? Sai che non sappiamo nulla di lui? E se è lui ad aver commesso questi crimini? Che ne sai tu? Perché devi rischiare? –
-Perché se non lo faccio io lo faresti tu, ne sono sicuro. Quell’uomo rischia di essere ucciso. Gli lascio la foto, se vuole intendere intenda. Magari sono solo coincidenze, magari mi prenderà per pazzo. Ma lo devo fare. –
-Quando pensi di incontrarlo? -
-Proverò la settimana prossima, in coincidenza del mio giorno libero. Andrò all’università, il suo assistente aveva detto che ci sarebbero stati esami. –
Rimanemmo in silenzio gli sguardi persi nel vuoto, intanto gli addetti dell’agenzia funebre aveva sistemato la bara nella Mercedes nera. I parenti e gli amici dell’ingegnere salirono ciascuno nelle proprie auto, erano ora pronti ad accompagnarlo per l’ultimo giro per le strade di questa città.
-Chissà se l’amava? –
-Cosa? –
-Questa città. –
Serena scosse la testa – Penso che ormai fosse indifferente, l’unica cosa a cui pensava era alla famiglia che aveva avuto.. – poi respirò profondamente e riprese – Si, hai ragione io farei la stessa cosa.. anzi farò la stessa cosa.. infatti continueremo insieme le nostre indagini. –
La parola nostre la sottolineò facendomi un bellissimo sorriso.
-Sai che sto imparando lo spagnolo? Da quando mi hai parlato della Spagna me ne sono innamorata. –
Cominciai a ridere.
 – Bene, allora poi lo insegnerai a me e poi chissà andremo a vivere lì. –
-Fai meno lo spiritoso, mister Sherlock Holmes, che ancora non riesco a spiegarmi come hai collegato quella sorta di triangolino al punto esatto dove si trovava il corpo del povero ingegnere. E poi il delta dell’Oreto! Come se quello fosse un fiume grande come il Po! –
-Beh si, forse era solo un segnetto senza significato. E stato allora un colpo di fortuna. Ma potrei anche averci visto giusto. –
La guardai dritto negli occhi cercando di trattenere una risata.
-Sai – continuai – spesso le menti più razionali si spingono troppo in la con la razionalità che ne varcano il confine e cadono nell’irrazionalità. –

Mi guardò seria, non disse nulla per qualche secondo e poi esclamò –  Dio, ora questo ragazzo pure filosofo è!

martedì 11 febbraio 2014

IL GIOCO DEL RAGNO CAPITOLO 19

                                           19

Serena fece accomodare la signora Rosa in salotto; vedendo che le tremavano le mani per il freddo e che il colore del suo viso si avvicinava a quello di un cadavere, si precipitò in cucina a prepararle una tazza di the caldo. Rimanemmo io e lei seduti sul divano, il suo sguardo era perso nel vuoto, ad un certo punto si girò verso di me,
–Andrea mi deve aiutare, non so che fine abbia fatto l’ingegnere. –
La guardai “Ma di cosa parla?!”
- l’ingegnere non si fa vivo da due giorni!-
-Mi scusi signora Rosa, credo di non capire bene, come ha fatto a rintracciarmi, perché è venuta a cercare me e che cos’è questa storia che Tommasini è scomparso? Sapevo che era partito per la Germania.-
-Andrea, l’ingegnere non è mai partito, è da quando è iniziata questa storia che Carlo è cambiato. –
-Di quale storia sta parlando? Carlo è il nome dell’ingegnere?-
-Sì, parlo da quando c’è stato il primo delitto a piazza Pretoria, anzi da prima ancora, da quando una mattina ha ricevuto una busta anonima, che è cambiato. Le avevo detto che era sempre stato una persona tranquilla, che usciva raramente, trascorreva il pomeriggio assorto nei suoi libri, non aveva frequentazioni, era diventato un uomo fin troppo tranquillo. Fino a quando non ricevette quella busta. Improvvisamente cambiò umore e abitudini, i pomeriggi li trascorreva sempre fuori, e ogni tanto usciva di sera. Non mi diceva dove andava, insomma mai nessuna spiegazione. E la cosa è peggiorata dopo che hanno ucciso l’ingegnere Leone. –
La signora si interruppe quando entrò Serena con una tazza di the fumante.
-Ma scusi, cosa c’era in quella busta? L’ingegnere conosceva queste persone che sono state uccise? –
-No, non so cosa ci sia dentro, non ho mai avuto il coraggio di chiedere, lui la tiene chiusa nel cassetto della sua scrivania. E non so nemmeno se Carlo conoscesse quei due uomini, anche se vedendolo sconvolto dopo la morte di De Felice, gli chiesi se lo conosceva, mi rispose di no. Forse era terrorizzato , semplicemente perché quell’omicidio è stato atroce. Diventava sempre di più paranoico. Doveva essere solamente lui a rispondere al telefono, voleva essere avvisato se si fosse presentato qualcuno a casa mentre lui non c’era e non dovevo fare entrare nessuno. Non puoi immaginare, come mi rimproverò quando quella sera ti avevo fatto entrare. Io avevo chiamato l’ingegnere, quando sono andata in cucina a prendere il limoncello, lui mi aveva detto di non farti andare via che si stava precipitando. Invece poi te ne sei andato, fortunatamente mi avevi detto come ti chiamavi. Poi dopo un po’ di tempo mi disse che era tutto a posto che sicuramente tu eri un bravo ragazzo. –
-Ma non le ha detto che era venuto a trovarmi a casa mia?-
-No. Non sapevo più nulla di te, fino a qualche giorno fa, quando.. si quando ti vidi bussare a casa dell’ingegnere, io ero dentro. Ma Carlo mi aveva detto di non rispondere a nessuno, qualsiasi fosse il motivo. Mi disse che si sarebbe assentato per qualche giorno, stava preparando il viaggio per andare da suo figlio, ma prima doveva sbrigare delle faccende a Chiusa Sclafani dove ha delle terre, poi saremmo andati a Gelsenkirchen dal figlio. Così per farti andare via ho chiamato la vicina e le ho chiesto di dirti che avevamo lasciato Palermo.  Non ho più notizie di lui da sabato sera. –
Lanciai un’occhiata a Serena, adesso era certo.. l’uomo che avevamo visto sabato notte era lui.
-Mi sono rivolta a te, perché qui non abbiamo ne parenti ne amici se non persone anziane. Non ho avvisato il figlio, ancora non so se dovrei farlo.-
- Grosso modo ho capito, ma come ha fatto a rintracciarmi?-
-Ah sì, guarda ho trovato l’agendina di Carlo e fortunatamente c’è segnato il tuo indirizzo. Poi ho notato anche una cosa strana nella pagina di oggi, vedi?-
La signora mi porse l’agendina, e in quella pagina c’era disegnato un triangolino e scritto accanto Oreto 24.
- L’ingegnere non ha con se un cellulare?-
- Si. Ma risulta spento.   
Sfogliai l’agendina, era nuova, non eravamo che ai primi Marzo, c’erano solo quattro numeri telefonici, il mio indirizzo sottolineato. Erano segnati anche alcuni appuntamenti con indicati luoghi e orari. L’impegno di oggi sembrava che l’avesse scritto di fretta, il tratto lasciato dalla penna era meno sicuro rispetto alle altre cose che aveva segnato.
-Conosce questi numeri di telefono? - chiesi indicandole le cifre che comparivano nella rubrica dell’agendina.
-Sì, questo è di casa nostra, questo col prefisso straniero è del figlio, questo è del droghiere, questi altri due sono di due suoi ex colleghi. –
-Ha provato a chiamare questi due ex colleghi? –
-Sì, ho chiamato tutte le persone che conoscevano l’ingegnere, che non sono tante, come puoi vedere. Ma nessuno sa niente. Per questo mi sono rivolta a te. -
Guardai Serena, avevo nella tasca del giubbotto la foto che avevo preso da casa di Tommasini, la estrassi e la porsi alla signora. Rimase stupita di trovarsi ora fra le mani un ricordo che apparteneva all’ingegnere.   
–Signora, guardi questa foto, è dell’ingegnere, come vede appare insieme a Vincenzo Leone e a Pasquale De Felice, i due uomini misteriosamente assassinati. Lei sapeva che si conoscevano? Magari avrà notato qualche reazione alla morte dei due uomini? -
La donna osservò con attenzione la foto, la riconobbe come una cosa familiare, era sempre stata con lei in quella casa per anni, ebbe allora un momento di stupore, non capiva come fosse finita in mano mia, e quello che la sorprendeva di più era come non si fosse accorta che quella foto avesse lasciato la sua casa senza che lei si fosse accorta di nulla. Però, d’altro canto la zona del tavolo scrivania e della libreria erano piene di foto come questa, che ritraevano l’ingegnere e la sua famiglia in diverse fasi della loro vita.. cercava così di giustificarsi. Era imbarazzata, lei che aveva il compito di badare alla casa, non si era accorta della sparizione di una foto. Cercò comunque di concentrarsi su quegli uomini ritratti insieme all’ingegnere.
-Ragazzi, mi dispiace, non li conosco, non ne ho mai sentito parlare, e la cosa mi turba. Non riesco a capire, come ha fatto Carlo a rimanere indifferente alla morte di due suoi amici. E che morte. Può anche darsi che si trattasse di amicizie di gioventù, durate poco una volta persi i contatti. –
-Sì, sicuramente signora – intervenne Serena.
-Però adesso ho ancora più paura, ci può essere un collegamento tra la sparizione di Carlo e la morte degli altri due uomini. E se è così, sento che è in pericolo. –
-Qui c’è scritto, Oreto 24, è l’unica traccia che abbiamo. – dissi.
-Allora dopo cena andiamo in via Oreto al numero 24, mi sembra la cosa più logica. Ma prima mangiamo. Signora si fermi con noi, poi ci recheremo tutti e tre in quella via e speriamo di ritrovare l’ingegnere. Che ne pensi Andrea? -
-Sì, se abbiamo fortuna lo troviamo lì. –
La cena fu consumata velocemente, la signora non toccò cibo guardava solo l’orologio appeso in cucina. Alle dieci eravamo già in via Oreto. La via è una strada molto lunga, collega la stazione centrale con la circonvallazione, è una delle arterie principali della città, attraversa il fiume Oreto da cui prende il nome, per mezzo di un ponte costruito durante il ventennio fascista. La strada solitamente molto trafficata, a quell’ora era quasi del tutto libera.
Ci eravamo suddivisi i compiti, Serena e la signora Rosa percorrevano avanti e indietro la via con l’automobile, io invece ero appostato al numero ventiquattro di via Oreto. Mi trovavo davanti ad un portone di un palazzo costruito negli anni Settanta, non notai niente di particolare. Così come le notizie che mi dava Serena erano che dell’ingegnere non c’era nessuna traccia. Si fecero le undici e mezza quando vidi la mia amica posteggiare la macchina poco distante dal portone del civico ventiquattro. Ero completamente congelato, mi avvicinai all’auto ed entrai aprendo dalla parte posteriore.
-Sei tutto infreddolito, abbiamo fatto avanti e indietro senza sosta, ma niente.
Evidentemente le mie considerazioni sono errate. –
- Qui dell’ingegnere non ci sono tracce, aspettiamo un altro po’ e poi torniamo a casa. –
Il tepore all’interno della macchina mi stava conciliando il sonno, appoggiai la testa al finestrino, il freddo del vetro mi destò da questo stato di sonnolenza, guardai la strada, mi parve di scorgere una figura nera che si accingeva ad attraversare il ponte, aveva una corporatura simile a quella di Tommasini, ma non riuscivo a vedere bene il volto dell’individuo.
-Forse ho visto qualcosa! – esclamai.
Le due donne sobbalzarono, la sonnolenza non aveva colpito solo me.
-Dove?-
-Ho visto un uomo muoversi in direzione del ponte, la corporatura è simile a quella dell’ingegnere. Rimanete chiuse in macchina, io vado a vedere. –
-Stai attento. - Si raccomandarono all’unisono le due donne.
L’uomo stava arrivando dall’altra parte del ponte, incominciai a correre per raggiungerlo, ma più mi avvicinavo più mi rendevo conto che non si trattava della persona che stavamo cercando. Era un barbone, che sentendomi correre verso di lui si girò e mi guardò male. Mi fermai e tornai indietro. Mi sentivo frustrato e stanco, soffiava un vento gelido e molto intenso, che  tagliava la faccia. Ero giunto a metà del ponte, mi fermai mi appoggiai al parapetto, guardai giù il fiume, era ricoperto da canne che fluttuavano avanti e indietro seguendo il movimento del vento.
Era stata una giornata pesantissima, il lavoro, la lezione a Domenico, l’incontro con l’ingegnere Lo Vecchio, quello ancora più inverosimile con la signora Rosa e tutto il freddo preso per controllare quel portone. Ma dell’ingegnere nessuna traccia. Ripensavo a ciò che mi aveva raccontato quella donna, ma chi era in realtà l’ingegnere Tommasini? E perché mi spiava? Se era lui, che mi aveva spiato. Ora avevamo solamente una foto e quell’agendina, quel’ Oreto 24 e … quel triangolino senza importanza e significato accanto, forse era solo una freccia.. mi rivenne in mente la lezione di matematica con Domenico e il triangolino scritto nell’agendina.. alzai lo sguardo verso il fiume, che proseguiva il suo breve corso per riversarsi in mare.
 “No, non può essere.. Ma a questo punto le proviamo tutte”.
Raggiunsi la macchina, guardai l’ora, mancava un quarto a mezzanotte, dovevamo sbrigarci.
-Allora? Cosa è successo?-
-Serena metti in moto, scendiamo verso Sant’ Erasmo, dal Foro Italico svolta verso il ponte dove sfocia il fiume Oreto. Quella figura che assomiglia ad un triangolino potrebbe in realtà essere una lettera greca molto usata nei calcoli matematici la lettera delta. L’ingegnere forse ha preso in maniera rapida l’appunto, da come si evince dal tratto insicuro della scrittura. E in maniera sintetica ha riportato: al delta dell’Oreto alle ore 24, cioè appuntamento a mezzanotte alla foce dell’Oreto. –
-Che ore sono? – chiese, mentre volava con la macchina.
- Quasi mezzanotte – rispose la signora, che non sapeva più che fare tra pregare piangere o sperare.
Quando arrivammo sul luogo, vedemmo che c’erano quattro uomini che guadavano verso il fiume. Uno di questi era un ragazzo africano. Scendemmo dalla macchina e guardammo anche noi, sul letto del fiume c’era un corpo di un uomo disposto con le braccia aperte a mo’ di croce. La signora Rosa cominciò ad urlare. Mi avvicinai al gruppetto di persone, l’africano era il più provato, stava spiegando che rimaneva tutta la notte di guardia ad un chiosco di frutta e verdura, quella sera aveva visto un macchinone arrivare fino al fiume e poi sgommare di corsa. Poi sentirono delle urla strazianti e poi più nulla.
Avevano già chiamato la polizia e l’autoambulanza. Mi fece una gran tristezza vedere l’ingegnere buttato in quella maniera, ci avvicinammo, la signora Rosa si chinò su di lui, si mise a piangere urlava il suo nome.
Il corpo presentava un grosso taglio nello stomaco ed era disposto a forma di croce. Mi sembrava di aver notato anche un foglio vicino.
Il ragazzo africano disse che doveva scappare, aveva avvisato il proprietario del chiosco, l’arrivo della polizia poteva creargli dei problemi, era clandestino, non aveva documenti.
I delitti erano tutti collegati, era certo, ma che legame avevano? Leone, De Felice, Tommasini, e il prossimo forse sarebbe stato Lo Vecchio.
Riguardai il corpo del povero ingegnere “Lo stesso taglio che l’assassino aveva fatto a De Felice” ad un certo punto ebbi un presentimento. Dissi a Serena di rimanere accanto alla signora e poi di tornare a casa. Senza dare ulteriori spiegazioni, raggiunsi il ragazzo africano.
-Aspetta – urlai –mi puoi fare un favore? –
-Che vuoi?- mi disse –ho fretta – era già sul motorino, pronto ad andare via.
-Puoi darmi un passaggio fino ai Quattro Canti? –
-Ok, va bene. Ma sali e andiamo. –
L’uomo mi lasciò ai Quattro Canti e prima che potessi salutarlo e ringraziarlo, imboccando via Maqueda, sparì col suo motorino. Mi faceva pena, “Chissà che vita farà..” in realtà, immaginavo benissimo come viveva, passava tutte le notte a guardia di un banchetto di frutta, per pochi soldi.
Dovevo raggiungere la casa di Tommasini, prima della persona che lo aveva lasciato in quello stato sulla foce dell’Oreto. Ero sicuro, che se già non l’aveva fatto, sarebbe passato dall’appartamento dell’ingegnere, “Sono sicuro che vuole bruciare tutto come ha fatto con l’appartamento di De Felice”.
Il vicolo era buio l’unica lampada che lo illuminava era fulminata, il portone era aperto, entrai e salii le scale, ripercorrevo quei gradoni tozzi per la terza volta, e per la terza volta mi ritrovai di fronte la porta dell’appartamento. La serratura era forzata, emise uno scricchiolio quando la spinsi. Dentro non si vedeva nulla, aspettai qualche secondo per abituare i miei occhi a quella scarsità di luce e avanzai cauto, mi diressi verso la scrivania. Avevo la sensazione di non essere solo, avvertivo la presenza di qualcuno, ne sentivo quasi il respiro, il mio cuore andava a mille. Dovevo accendere la lampada sul tavolo, anche se non ero sicuro che fosse una buona idea. Ormai ero ad un passo dalla scrivania, quando con un piede urtai un bidone, dal quale schizzò fuori un liquido che macchiò i miei pantaloni. Toccai la macchia, le dita si impregnarono del liquido, le odorai. Non c’era dubbio era benzina, avevo adesso la certezza che non ero solo. Misi una mano sulla scrivania, era tutta bagnata, i cassetti erano aperti e il tutto era cosparso di benzina. Prima di tirare fuori la mano dal cassetto, mi venne spontaneo prendere quella che doveva essere una foto, la misi in tasca. Volevo salvare più cose, ma non c’era tempo, era chiaro che non ero solo, il pericolo era altissimo. Mi allontanai dalla scrivania e camminando rasente alle pareti cercavo di dirigermi verso l’uscita, quando ricevetti una spallata che mi fece cadere dentro una stanza. Mi alzai subito, ma non feci in tempo ad uscire che mi ritrovai chiuso dentro. Ero finito nella stanza da letto dell’ingegnere. Tentai di aprire, ma era stata chiusa a chiave, così cominciai tirare calci e urla.
-Fammi uscire! - urlai con tutta la mia forza.
- Morirai pure tu – questa fu la risposta agghiacciante che mi giunse dall’altra parte.
Quella voce sembrava un rantolo, il sibilo di un serpente. Mi fece rabbrividire. Mi accorsi che da sotto la porta stava scorrendo, quella che doveva essere benzina. Si stava espandendo per tutta la stanza, i tappetini si stavano imbevendo di benzina, così pure la carta da parati, essendo la parete sprovvista di zoccoletto, si stava anche lei imbevendo. Mi allontanai dalla porta, aprii la finestra che si trovava nella posizione opposta. La finestra aveva alla base un cornicione con uno spessore di cinque centimetri, era pericolosissimo camminarci sopra. Mi rivolsi di nuovo verso la porta, l’unica cosa era darle una spallata con tutta la forza che avevo. Mi ero preparato prendendo una rincorsa, quando da sotto la porta si levò una lingua di fuoco che divampò su tutti i mobili della camera. Ora non avevo altra scelta, mi tolsi il giubbotto, il maglione e le scarpe, misi tutto dentro la fodera di un cuscino del letto dell’ingegnere e buttai tutto giù dalla finestra, mi arrampicai sul cornicione e comincia ad avanzare verso il terrazzo della cucina. Ci impiegai una vita, strisciavo il viso e il petto sul muro, avanzavo lentamente strisciando i piedi sul cornicione, il vento gelido completava l’opera. Riuscii a raggiungere la terrazza. La porta finestra che comunicava con la cucina era chiusa, presi un vaso e lo schiantai sul vetro che si frantumò. La casa era avvolta dalle fiamme, corsi verso l’uscita.
Finalmente ero per strada, dell’uomo nessuna traccia. Era scomparso. Andai a riprendere i vestiti che avevo lanciato. Mi rivestii mentre sentivo da lontano le sirene dei pompieri che stavano accorrendo per spegnere l’incendio. Per fortuna ero ancora tutto intero, mi sistemai e mi diressi verso casa. Mi accorsi che nella tasca del giubbotto c’era ancora l’unica cosa ormai che apparteneva all’ingegnere Tommasini, quella foto che ero riuscito a salvare dalle fiamme.