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Serena fece accomodare la signora Rosa in salotto;
vedendo che le tremavano le mani per il freddo e che il colore del suo viso si
avvicinava a quello di un cadavere, si precipitò in cucina a prepararle una
tazza di the caldo. Rimanemmo io e lei seduti sul divano, il suo sguardo era
perso nel vuoto, ad un certo punto si girò verso di me,
–Andrea mi deve aiutare, non so che fine abbia fatto
l’ingegnere. –
La guardai “Ma di cosa parla?!”
- l’ingegnere non si fa vivo da due giorni!-
-Mi scusi signora Rosa, credo di non capire bene, come
ha fatto a rintracciarmi, perché è venuta a cercare me e che cos’è questa
storia che Tommasini è scomparso? Sapevo che era partito per la Germania.-
-Andrea, l’ingegnere non è mai partito, è da quando è
iniziata questa storia che Carlo è cambiato. –
-Di quale storia sta parlando? Carlo è il nome
dell’ingegnere?-
-Sì, parlo da quando c’è stato il primo delitto a
piazza Pretoria, anzi da prima ancora, da quando una mattina ha ricevuto una
busta anonima, che è cambiato. Le avevo detto che era sempre stato una persona
tranquilla, che usciva raramente, trascorreva il pomeriggio assorto nei suoi
libri, non aveva frequentazioni, era diventato un uomo fin troppo tranquillo.
Fino a quando non ricevette quella busta. Improvvisamente cambiò umore e
abitudini, i pomeriggi li trascorreva sempre fuori, e ogni tanto usciva di sera.
Non mi diceva dove andava, insomma mai nessuna spiegazione. E la cosa è
peggiorata dopo che hanno ucciso l’ingegnere Leone. –
La signora si interruppe quando entrò Serena con una
tazza di the fumante.
-Ma scusi, cosa c’era in quella busta? L’ingegnere
conosceva queste persone che sono state uccise? –
-No, non so cosa ci sia dentro, non ho mai avuto il
coraggio di chiedere, lui la tiene chiusa nel cassetto della sua scrivania. E
non so nemmeno se Carlo conoscesse quei due uomini, anche se vedendolo
sconvolto dopo la morte di De Felice, gli chiesi se lo conosceva, mi rispose di
no. Forse era terrorizzato , semplicemente perché quell’omicidio è stato atroce.
Diventava sempre di più paranoico. Doveva essere solamente lui a rispondere al
telefono, voleva essere avvisato se si fosse presentato qualcuno a casa mentre
lui non c’era e non dovevo fare entrare nessuno. Non puoi immaginare, come mi
rimproverò quando quella sera ti avevo fatto entrare. Io avevo chiamato
l’ingegnere, quando sono andata in cucina a prendere il limoncello, lui mi
aveva detto di non farti andare via che si stava precipitando. Invece poi te ne
sei andato, fortunatamente mi avevi detto come ti chiamavi. Poi dopo un po’ di
tempo mi disse che era tutto a posto che sicuramente tu eri un bravo ragazzo. –
-Ma non le ha detto che era venuto a trovarmi a casa
mia?-
-No. Non sapevo più nulla di te, fino a qualche giorno
fa, quando.. si quando ti vidi bussare a casa dell’ingegnere, io ero dentro. Ma
Carlo mi aveva detto di non rispondere a nessuno, qualsiasi fosse il motivo. Mi
disse che si sarebbe assentato per qualche giorno, stava preparando il viaggio
per andare da suo figlio, ma prima doveva sbrigare delle faccende a Chiusa
Sclafani dove ha delle terre, poi saremmo andati a Gelsenkirchen dal figlio.
Così per farti andare via ho chiamato la vicina e le ho chiesto di dirti che
avevamo lasciato Palermo. Non ho più
notizie di lui da sabato sera. –
Lanciai un’occhiata a Serena, adesso era certo..
l’uomo che avevamo visto sabato notte era lui.
-Mi sono rivolta a te, perché qui non abbiamo ne parenti
ne amici se non persone anziane. Non ho avvisato il figlio, ancora non so se
dovrei farlo.-
- Grosso modo ho capito, ma come ha fatto a
rintracciarmi?-
-Ah sì, guarda ho trovato l’agendina di Carlo e
fortunatamente c’è segnato il tuo indirizzo. Poi ho notato anche una cosa
strana nella pagina di oggi, vedi?-
La signora mi porse l’agendina, e in quella pagina c’era
disegnato un triangolino e scritto accanto Oreto 24.
- L’ingegnere non ha con se un cellulare?-
- Si. Ma risulta spento. –
Sfogliai l’agendina, era nuova, non eravamo che ai
primi Marzo, c’erano solo quattro numeri telefonici, il mio indirizzo
sottolineato. Erano segnati anche alcuni appuntamenti con indicati luoghi e
orari. L’impegno di oggi sembrava che l’avesse scritto di fretta, il tratto
lasciato dalla penna era meno sicuro rispetto alle altre cose che aveva
segnato.
-Conosce questi numeri di telefono? - chiesi
indicandole le cifre che comparivano nella rubrica dell’agendina.
-Sì, questo è di casa nostra, questo col prefisso
straniero è del figlio, questo è del droghiere, questi altri due sono di due
suoi ex colleghi. –
-Ha provato a chiamare questi due ex colleghi? –
-Sì, ho chiamato tutte le persone che conoscevano
l’ingegnere, che non sono tante, come puoi vedere. Ma nessuno sa niente. Per
questo mi sono rivolta a te. -
Guardai Serena, avevo nella tasca del giubbotto la
foto che avevo preso da casa di Tommasini, la estrassi e la porsi alla signora.
Rimase stupita di trovarsi ora fra le mani un ricordo che apparteneva
all’ingegnere.
–Signora, guardi questa foto, è dell’ingegnere, come
vede appare insieme a Vincenzo Leone e a Pasquale De Felice, i due uomini
misteriosamente assassinati. Lei sapeva che si conoscevano? Magari avrà notato
qualche reazione alla morte dei due uomini? -
La donna osservò con attenzione la foto, la riconobbe
come una cosa familiare, era sempre stata con lei in quella casa per anni, ebbe
allora un momento di stupore, non capiva come fosse finita in mano mia, e
quello che la sorprendeva di più era come non si fosse accorta che quella foto
avesse lasciato la sua casa senza che lei si fosse accorta di nulla. Però,
d’altro canto la zona del tavolo scrivania e della libreria erano piene di foto
come questa, che ritraevano l’ingegnere e la sua famiglia in diverse fasi della
loro vita.. cercava così di giustificarsi. Era imbarazzata, lei che aveva il
compito di badare alla casa, non si era accorta della sparizione di una foto.
Cercò comunque di concentrarsi su quegli uomini ritratti insieme all’ingegnere.
-Ragazzi, mi dispiace, non li conosco, non ne ho mai
sentito parlare, e la cosa mi turba. Non riesco a capire, come ha fatto Carlo a
rimanere indifferente alla morte di due suoi amici. E che morte. Può anche
darsi che si trattasse di amicizie di gioventù, durate poco una volta persi i
contatti. –
-Sì, sicuramente signora – intervenne Serena.
-Però adesso ho ancora più paura, ci può essere un
collegamento tra la sparizione di Carlo e la morte degli altri due uomini. E se
è così, sento che è in pericolo. –
-Qui c’è scritto, Oreto 24, è l’unica traccia che
abbiamo. – dissi.
-Allora dopo cena andiamo in via Oreto al numero 24,
mi sembra la cosa più logica. Ma prima mangiamo. Signora si fermi con noi, poi
ci recheremo tutti e tre in quella via e speriamo di ritrovare l’ingegnere. Che
ne pensi Andrea? -
-Sì, se abbiamo fortuna lo troviamo lì. –
La cena fu consumata velocemente, la signora non toccò
cibo guardava solo l’orologio appeso in cucina. Alle dieci eravamo già in via Oreto.
La via è una strada molto lunga, collega la stazione centrale con la
circonvallazione, è una delle arterie principali della città, attraversa il
fiume Oreto da cui prende il nome, per mezzo di un ponte costruito durante il
ventennio fascista. La strada solitamente molto trafficata, a quell’ora era
quasi del tutto libera.
Ci eravamo suddivisi i compiti, Serena e la signora
Rosa percorrevano avanti e indietro la via con l’automobile, io invece ero
appostato al numero ventiquattro di via Oreto. Mi trovavo davanti ad un portone
di un palazzo costruito negli anni Settanta, non notai niente di particolare.
Così come le notizie che mi dava Serena erano che dell’ingegnere non c’era
nessuna traccia. Si fecero le undici e mezza quando vidi la mia amica posteggiare
la macchina poco distante dal portone del civico ventiquattro. Ero
completamente congelato, mi avvicinai all’auto ed entrai aprendo dalla parte
posteriore.
-Sei tutto infreddolito, abbiamo fatto avanti e indietro
senza sosta, ma niente.
Evidentemente le mie considerazioni sono errate. –
- Qui dell’ingegnere non ci sono tracce, aspettiamo un
altro po’ e poi torniamo a casa. –
Il tepore all’interno della macchina mi stava
conciliando il sonno, appoggiai la testa al finestrino, il freddo del vetro mi
destò da questo stato di sonnolenza, guardai la strada, mi parve di scorgere
una figura nera che si accingeva ad attraversare il ponte, aveva una
corporatura simile a quella di Tommasini, ma non riuscivo a vedere bene il
volto dell’individuo.
-Forse ho visto qualcosa! – esclamai.
Le due donne sobbalzarono, la sonnolenza non aveva
colpito solo me.
-Dove?-
-Ho visto un uomo muoversi in direzione del ponte, la
corporatura è simile a quella dell’ingegnere. Rimanete chiuse in macchina, io
vado a vedere. –
-Stai attento. - Si raccomandarono all’unisono le due
donne.
L’uomo stava arrivando dall’altra parte del ponte,
incominciai a correre per raggiungerlo, ma più mi avvicinavo più mi rendevo
conto che non si trattava della persona che stavamo cercando. Era un barbone,
che sentendomi correre verso di lui si girò e mi guardò male. Mi fermai e
tornai indietro. Mi sentivo frustrato e stanco, soffiava un vento gelido e
molto intenso, che tagliava la faccia.
Ero giunto a metà del ponte, mi fermai mi appoggiai al parapetto, guardai giù
il fiume, era ricoperto da canne che fluttuavano avanti e indietro seguendo il
movimento del vento.
Era stata una giornata pesantissima, il lavoro, la
lezione a Domenico, l’incontro con l’ingegnere Lo Vecchio, quello ancora più
inverosimile con la signora Rosa e tutto il freddo preso per controllare quel
portone. Ma dell’ingegnere nessuna traccia. Ripensavo a ciò che mi aveva
raccontato quella donna, ma chi era in realtà l’ingegnere Tommasini? E perché
mi spiava? Se era lui, che mi aveva spiato. Ora avevamo solamente una foto e
quell’agendina, quel’ Oreto 24 e … quel triangolino senza importanza e
significato accanto, forse era solo una freccia.. mi rivenne in mente la
lezione di matematica con Domenico e il triangolino scritto nell’agendina.. alzai
lo sguardo verso il fiume, che proseguiva il suo breve corso per riversarsi in
mare.
“No, non può
essere.. Ma a questo punto le proviamo tutte”.
Raggiunsi la macchina, guardai l’ora, mancava un
quarto a mezzanotte, dovevamo sbrigarci.
-Allora? Cosa è successo?-
-Serena metti in moto, scendiamo verso Sant’ Erasmo,
dal Foro Italico svolta verso il ponte dove sfocia il fiume Oreto. Quella
figura che assomiglia ad un triangolino potrebbe in realtà essere una lettera
greca molto usata nei calcoli matematici la lettera delta. L’ingegnere
forse ha preso in maniera rapida l’appunto, da come si evince dal tratto
insicuro della scrittura. E in maniera sintetica ha riportato: al delta
dell’Oreto alle ore 24, cioè appuntamento a mezzanotte alla foce dell’Oreto. –
-Che ore sono? – chiese, mentre volava con la
macchina.
- Quasi mezzanotte – rispose la signora, che non
sapeva più che fare tra pregare piangere o sperare.
Quando arrivammo sul luogo, vedemmo che c’erano
quattro uomini che guadavano verso il fiume. Uno di questi era un ragazzo
africano. Scendemmo dalla macchina e guardammo anche noi, sul letto del fiume
c’era un corpo di un uomo disposto con le braccia aperte a mo’ di croce. La
signora Rosa cominciò ad urlare. Mi avvicinai al gruppetto di persone, l’africano
era il più provato, stava spiegando che rimaneva tutta la notte di guardia ad
un chiosco di frutta e verdura, quella sera aveva visto un macchinone arrivare
fino al fiume e poi sgommare di corsa. Poi sentirono delle urla strazianti e
poi più nulla.
Avevano già chiamato la polizia e l’autoambulanza. Mi
fece una gran tristezza vedere l’ingegnere buttato in quella maniera, ci
avvicinammo, la signora Rosa si chinò su di lui, si mise a piangere urlava il
suo nome.
Il corpo presentava un grosso taglio nello stomaco ed
era disposto a forma di croce. Mi sembrava di aver notato anche un foglio
vicino.
Il ragazzo africano disse che doveva scappare, aveva
avvisato il proprietario del chiosco, l’arrivo della polizia poteva creargli
dei problemi, era clandestino, non aveva documenti.
I delitti erano tutti collegati, era certo, ma che
legame avevano? Leone, De Felice, Tommasini, e il prossimo forse sarebbe stato
Lo Vecchio.
Riguardai il corpo del povero ingegnere “Lo stesso
taglio che l’assassino aveva fatto a De Felice” ad un certo punto ebbi un
presentimento. Dissi a Serena di rimanere accanto alla signora e poi di tornare
a casa. Senza dare ulteriori spiegazioni, raggiunsi il ragazzo africano.
-Aspetta – urlai –mi puoi fare un favore? –
-Che vuoi?- mi disse –ho fretta – era già sul
motorino, pronto ad andare via.
-Puoi darmi un passaggio fino ai Quattro Canti? –
-Ok, va bene. Ma sali e andiamo. –
L’uomo mi lasciò ai Quattro Canti e prima che potessi
salutarlo e ringraziarlo, imboccando via Maqueda, sparì col suo motorino. Mi
faceva pena, “Chissà che vita farà..” in realtà, immaginavo benissimo come
viveva, passava tutte le notte a guardia di un banchetto di frutta, per pochi
soldi.
Dovevo raggiungere la casa di Tommasini, prima della
persona che lo aveva lasciato in quello stato sulla foce dell’Oreto. Ero
sicuro, che se già non l’aveva fatto, sarebbe passato dall’appartamento
dell’ingegnere, “Sono sicuro che vuole bruciare tutto come ha fatto con
l’appartamento di De Felice”.
Il vicolo era buio l’unica lampada che lo illuminava
era fulminata, il portone era aperto, entrai e salii le scale, ripercorrevo
quei gradoni tozzi per la terza volta, e per la terza volta mi ritrovai di
fronte la porta dell’appartamento. La serratura era forzata, emise uno
scricchiolio quando la spinsi. Dentro non si vedeva nulla, aspettai qualche
secondo per abituare i miei occhi a quella scarsità di luce e avanzai cauto, mi
diressi verso la scrivania. Avevo la sensazione di non essere solo, avvertivo
la presenza di qualcuno, ne sentivo quasi il respiro, il mio cuore andava a
mille. Dovevo accendere la lampada sul tavolo, anche se non ero sicuro che
fosse una buona idea. Ormai ero ad un passo dalla scrivania, quando con un
piede urtai un bidone, dal quale schizzò fuori un liquido che macchiò i miei
pantaloni. Toccai la macchia, le dita si impregnarono del liquido, le odorai.
Non c’era dubbio era benzina, avevo adesso la certezza che non ero solo. Misi
una mano sulla scrivania, era tutta bagnata, i cassetti erano aperti e il tutto
era cosparso di benzina. Prima di tirare fuori la mano dal cassetto, mi venne
spontaneo prendere quella che doveva essere una foto, la misi in tasca. Volevo
salvare più cose, ma non c’era tempo, era chiaro che non ero solo, il pericolo
era altissimo. Mi allontanai dalla scrivania e camminando rasente alle pareti
cercavo di dirigermi verso l’uscita, quando ricevetti una spallata che mi fece
cadere dentro una stanza. Mi alzai subito, ma non feci in tempo ad uscire che
mi ritrovai chiuso dentro. Ero finito nella stanza da letto dell’ingegnere.
Tentai di aprire, ma era stata chiusa a chiave, così cominciai tirare calci e
urla.
-Fammi uscire! - urlai con tutta la mia forza.
- Morirai pure tu – questa fu la risposta
agghiacciante che mi giunse dall’altra parte.
Quella voce sembrava un rantolo, il sibilo di un
serpente. Mi fece rabbrividire. Mi accorsi che da sotto la porta stava
scorrendo, quella che doveva essere benzina. Si stava espandendo per tutta la
stanza, i tappetini si stavano imbevendo di benzina, così pure la carta da
parati, essendo la parete sprovvista di zoccoletto, si stava anche lei
imbevendo. Mi allontanai dalla porta, aprii la finestra che si trovava nella
posizione opposta. La finestra aveva alla base un cornicione con uno spessore
di cinque centimetri, era pericolosissimo camminarci sopra. Mi rivolsi di nuovo
verso la porta, l’unica cosa era darle una spallata con tutta la forza che
avevo. Mi ero preparato prendendo una rincorsa, quando da sotto la porta si
levò una lingua di fuoco che divampò su tutti i mobili della camera. Ora non
avevo altra scelta, mi tolsi il giubbotto, il maglione e le scarpe, misi tutto
dentro la fodera di un cuscino del letto dell’ingegnere e buttai tutto giù
dalla finestra, mi arrampicai sul cornicione e comincia ad avanzare verso il
terrazzo della cucina. Ci impiegai una vita, strisciavo il viso e il petto sul
muro, avanzavo lentamente strisciando i piedi sul cornicione, il vento gelido
completava l’opera. Riuscii a raggiungere la terrazza. La porta finestra che
comunicava con la cucina era chiusa, presi un vaso e lo schiantai sul vetro che
si frantumò. La casa era avvolta dalle fiamme, corsi verso l’uscita.
Finalmente ero per strada,
dell’uomo nessuna traccia. Era scomparso. Andai a riprendere i vestiti che
avevo lanciato. Mi rivestii mentre sentivo da lontano le sirene dei pompieri
che stavano accorrendo per spegnere l’incendio. Per fortuna ero ancora tutto
intero, mi sistemai e mi diressi verso casa. Mi accorsi che nella tasca del
giubbotto c’era ancora l’unica cosa ormai che apparteneva all’ingegnere
Tommasini, quella foto che ero riuscito a salvare dalle fiamme.