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martedì 11 febbraio 2014

IL GIOCO DEL RAGNO CAPITOLO 19

                                           19

Serena fece accomodare la signora Rosa in salotto; vedendo che le tremavano le mani per il freddo e che il colore del suo viso si avvicinava a quello di un cadavere, si precipitò in cucina a prepararle una tazza di the caldo. Rimanemmo io e lei seduti sul divano, il suo sguardo era perso nel vuoto, ad un certo punto si girò verso di me,
–Andrea mi deve aiutare, non so che fine abbia fatto l’ingegnere. –
La guardai “Ma di cosa parla?!”
- l’ingegnere non si fa vivo da due giorni!-
-Mi scusi signora Rosa, credo di non capire bene, come ha fatto a rintracciarmi, perché è venuta a cercare me e che cos’è questa storia che Tommasini è scomparso? Sapevo che era partito per la Germania.-
-Andrea, l’ingegnere non è mai partito, è da quando è iniziata questa storia che Carlo è cambiato. –
-Di quale storia sta parlando? Carlo è il nome dell’ingegnere?-
-Sì, parlo da quando c’è stato il primo delitto a piazza Pretoria, anzi da prima ancora, da quando una mattina ha ricevuto una busta anonima, che è cambiato. Le avevo detto che era sempre stato una persona tranquilla, che usciva raramente, trascorreva il pomeriggio assorto nei suoi libri, non aveva frequentazioni, era diventato un uomo fin troppo tranquillo. Fino a quando non ricevette quella busta. Improvvisamente cambiò umore e abitudini, i pomeriggi li trascorreva sempre fuori, e ogni tanto usciva di sera. Non mi diceva dove andava, insomma mai nessuna spiegazione. E la cosa è peggiorata dopo che hanno ucciso l’ingegnere Leone. –
La signora si interruppe quando entrò Serena con una tazza di the fumante.
-Ma scusi, cosa c’era in quella busta? L’ingegnere conosceva queste persone che sono state uccise? –
-No, non so cosa ci sia dentro, non ho mai avuto il coraggio di chiedere, lui la tiene chiusa nel cassetto della sua scrivania. E non so nemmeno se Carlo conoscesse quei due uomini, anche se vedendolo sconvolto dopo la morte di De Felice, gli chiesi se lo conosceva, mi rispose di no. Forse era terrorizzato , semplicemente perché quell’omicidio è stato atroce. Diventava sempre di più paranoico. Doveva essere solamente lui a rispondere al telefono, voleva essere avvisato se si fosse presentato qualcuno a casa mentre lui non c’era e non dovevo fare entrare nessuno. Non puoi immaginare, come mi rimproverò quando quella sera ti avevo fatto entrare. Io avevo chiamato l’ingegnere, quando sono andata in cucina a prendere il limoncello, lui mi aveva detto di non farti andare via che si stava precipitando. Invece poi te ne sei andato, fortunatamente mi avevi detto come ti chiamavi. Poi dopo un po’ di tempo mi disse che era tutto a posto che sicuramente tu eri un bravo ragazzo. –
-Ma non le ha detto che era venuto a trovarmi a casa mia?-
-No. Non sapevo più nulla di te, fino a qualche giorno fa, quando.. si quando ti vidi bussare a casa dell’ingegnere, io ero dentro. Ma Carlo mi aveva detto di non rispondere a nessuno, qualsiasi fosse il motivo. Mi disse che si sarebbe assentato per qualche giorno, stava preparando il viaggio per andare da suo figlio, ma prima doveva sbrigare delle faccende a Chiusa Sclafani dove ha delle terre, poi saremmo andati a Gelsenkirchen dal figlio. Così per farti andare via ho chiamato la vicina e le ho chiesto di dirti che avevamo lasciato Palermo.  Non ho più notizie di lui da sabato sera. –
Lanciai un’occhiata a Serena, adesso era certo.. l’uomo che avevamo visto sabato notte era lui.
-Mi sono rivolta a te, perché qui non abbiamo ne parenti ne amici se non persone anziane. Non ho avvisato il figlio, ancora non so se dovrei farlo.-
- Grosso modo ho capito, ma come ha fatto a rintracciarmi?-
-Ah sì, guarda ho trovato l’agendina di Carlo e fortunatamente c’è segnato il tuo indirizzo. Poi ho notato anche una cosa strana nella pagina di oggi, vedi?-
La signora mi porse l’agendina, e in quella pagina c’era disegnato un triangolino e scritto accanto Oreto 24.
- L’ingegnere non ha con se un cellulare?-
- Si. Ma risulta spento.   
Sfogliai l’agendina, era nuova, non eravamo che ai primi Marzo, c’erano solo quattro numeri telefonici, il mio indirizzo sottolineato. Erano segnati anche alcuni appuntamenti con indicati luoghi e orari. L’impegno di oggi sembrava che l’avesse scritto di fretta, il tratto lasciato dalla penna era meno sicuro rispetto alle altre cose che aveva segnato.
-Conosce questi numeri di telefono? - chiesi indicandole le cifre che comparivano nella rubrica dell’agendina.
-Sì, questo è di casa nostra, questo col prefisso straniero è del figlio, questo è del droghiere, questi altri due sono di due suoi ex colleghi. –
-Ha provato a chiamare questi due ex colleghi? –
-Sì, ho chiamato tutte le persone che conoscevano l’ingegnere, che non sono tante, come puoi vedere. Ma nessuno sa niente. Per questo mi sono rivolta a te. -
Guardai Serena, avevo nella tasca del giubbotto la foto che avevo preso da casa di Tommasini, la estrassi e la porsi alla signora. Rimase stupita di trovarsi ora fra le mani un ricordo che apparteneva all’ingegnere.   
–Signora, guardi questa foto, è dell’ingegnere, come vede appare insieme a Vincenzo Leone e a Pasquale De Felice, i due uomini misteriosamente assassinati. Lei sapeva che si conoscevano? Magari avrà notato qualche reazione alla morte dei due uomini? -
La donna osservò con attenzione la foto, la riconobbe come una cosa familiare, era sempre stata con lei in quella casa per anni, ebbe allora un momento di stupore, non capiva come fosse finita in mano mia, e quello che la sorprendeva di più era come non si fosse accorta che quella foto avesse lasciato la sua casa senza che lei si fosse accorta di nulla. Però, d’altro canto la zona del tavolo scrivania e della libreria erano piene di foto come questa, che ritraevano l’ingegnere e la sua famiglia in diverse fasi della loro vita.. cercava così di giustificarsi. Era imbarazzata, lei che aveva il compito di badare alla casa, non si era accorta della sparizione di una foto. Cercò comunque di concentrarsi su quegli uomini ritratti insieme all’ingegnere.
-Ragazzi, mi dispiace, non li conosco, non ne ho mai sentito parlare, e la cosa mi turba. Non riesco a capire, come ha fatto Carlo a rimanere indifferente alla morte di due suoi amici. E che morte. Può anche darsi che si trattasse di amicizie di gioventù, durate poco una volta persi i contatti. –
-Sì, sicuramente signora – intervenne Serena.
-Però adesso ho ancora più paura, ci può essere un collegamento tra la sparizione di Carlo e la morte degli altri due uomini. E se è così, sento che è in pericolo. –
-Qui c’è scritto, Oreto 24, è l’unica traccia che abbiamo. – dissi.
-Allora dopo cena andiamo in via Oreto al numero 24, mi sembra la cosa più logica. Ma prima mangiamo. Signora si fermi con noi, poi ci recheremo tutti e tre in quella via e speriamo di ritrovare l’ingegnere. Che ne pensi Andrea? -
-Sì, se abbiamo fortuna lo troviamo lì. –
La cena fu consumata velocemente, la signora non toccò cibo guardava solo l’orologio appeso in cucina. Alle dieci eravamo già in via Oreto. La via è una strada molto lunga, collega la stazione centrale con la circonvallazione, è una delle arterie principali della città, attraversa il fiume Oreto da cui prende il nome, per mezzo di un ponte costruito durante il ventennio fascista. La strada solitamente molto trafficata, a quell’ora era quasi del tutto libera.
Ci eravamo suddivisi i compiti, Serena e la signora Rosa percorrevano avanti e indietro la via con l’automobile, io invece ero appostato al numero ventiquattro di via Oreto. Mi trovavo davanti ad un portone di un palazzo costruito negli anni Settanta, non notai niente di particolare. Così come le notizie che mi dava Serena erano che dell’ingegnere non c’era nessuna traccia. Si fecero le undici e mezza quando vidi la mia amica posteggiare la macchina poco distante dal portone del civico ventiquattro. Ero completamente congelato, mi avvicinai all’auto ed entrai aprendo dalla parte posteriore.
-Sei tutto infreddolito, abbiamo fatto avanti e indietro senza sosta, ma niente.
Evidentemente le mie considerazioni sono errate. –
- Qui dell’ingegnere non ci sono tracce, aspettiamo un altro po’ e poi torniamo a casa. –
Il tepore all’interno della macchina mi stava conciliando il sonno, appoggiai la testa al finestrino, il freddo del vetro mi destò da questo stato di sonnolenza, guardai la strada, mi parve di scorgere una figura nera che si accingeva ad attraversare il ponte, aveva una corporatura simile a quella di Tommasini, ma non riuscivo a vedere bene il volto dell’individuo.
-Forse ho visto qualcosa! – esclamai.
Le due donne sobbalzarono, la sonnolenza non aveva colpito solo me.
-Dove?-
-Ho visto un uomo muoversi in direzione del ponte, la corporatura è simile a quella dell’ingegnere. Rimanete chiuse in macchina, io vado a vedere. –
-Stai attento. - Si raccomandarono all’unisono le due donne.
L’uomo stava arrivando dall’altra parte del ponte, incominciai a correre per raggiungerlo, ma più mi avvicinavo più mi rendevo conto che non si trattava della persona che stavamo cercando. Era un barbone, che sentendomi correre verso di lui si girò e mi guardò male. Mi fermai e tornai indietro. Mi sentivo frustrato e stanco, soffiava un vento gelido e molto intenso, che  tagliava la faccia. Ero giunto a metà del ponte, mi fermai mi appoggiai al parapetto, guardai giù il fiume, era ricoperto da canne che fluttuavano avanti e indietro seguendo il movimento del vento.
Era stata una giornata pesantissima, il lavoro, la lezione a Domenico, l’incontro con l’ingegnere Lo Vecchio, quello ancora più inverosimile con la signora Rosa e tutto il freddo preso per controllare quel portone. Ma dell’ingegnere nessuna traccia. Ripensavo a ciò che mi aveva raccontato quella donna, ma chi era in realtà l’ingegnere Tommasini? E perché mi spiava? Se era lui, che mi aveva spiato. Ora avevamo solamente una foto e quell’agendina, quel’ Oreto 24 e … quel triangolino senza importanza e significato accanto, forse era solo una freccia.. mi rivenne in mente la lezione di matematica con Domenico e il triangolino scritto nell’agendina.. alzai lo sguardo verso il fiume, che proseguiva il suo breve corso per riversarsi in mare.
 “No, non può essere.. Ma a questo punto le proviamo tutte”.
Raggiunsi la macchina, guardai l’ora, mancava un quarto a mezzanotte, dovevamo sbrigarci.
-Allora? Cosa è successo?-
-Serena metti in moto, scendiamo verso Sant’ Erasmo, dal Foro Italico svolta verso il ponte dove sfocia il fiume Oreto. Quella figura che assomiglia ad un triangolino potrebbe in realtà essere una lettera greca molto usata nei calcoli matematici la lettera delta. L’ingegnere forse ha preso in maniera rapida l’appunto, da come si evince dal tratto insicuro della scrittura. E in maniera sintetica ha riportato: al delta dell’Oreto alle ore 24, cioè appuntamento a mezzanotte alla foce dell’Oreto. –
-Che ore sono? – chiese, mentre volava con la macchina.
- Quasi mezzanotte – rispose la signora, che non sapeva più che fare tra pregare piangere o sperare.
Quando arrivammo sul luogo, vedemmo che c’erano quattro uomini che guadavano verso il fiume. Uno di questi era un ragazzo africano. Scendemmo dalla macchina e guardammo anche noi, sul letto del fiume c’era un corpo di un uomo disposto con le braccia aperte a mo’ di croce. La signora Rosa cominciò ad urlare. Mi avvicinai al gruppetto di persone, l’africano era il più provato, stava spiegando che rimaneva tutta la notte di guardia ad un chiosco di frutta e verdura, quella sera aveva visto un macchinone arrivare fino al fiume e poi sgommare di corsa. Poi sentirono delle urla strazianti e poi più nulla.
Avevano già chiamato la polizia e l’autoambulanza. Mi fece una gran tristezza vedere l’ingegnere buttato in quella maniera, ci avvicinammo, la signora Rosa si chinò su di lui, si mise a piangere urlava il suo nome.
Il corpo presentava un grosso taglio nello stomaco ed era disposto a forma di croce. Mi sembrava di aver notato anche un foglio vicino.
Il ragazzo africano disse che doveva scappare, aveva avvisato il proprietario del chiosco, l’arrivo della polizia poteva creargli dei problemi, era clandestino, non aveva documenti.
I delitti erano tutti collegati, era certo, ma che legame avevano? Leone, De Felice, Tommasini, e il prossimo forse sarebbe stato Lo Vecchio.
Riguardai il corpo del povero ingegnere “Lo stesso taglio che l’assassino aveva fatto a De Felice” ad un certo punto ebbi un presentimento. Dissi a Serena di rimanere accanto alla signora e poi di tornare a casa. Senza dare ulteriori spiegazioni, raggiunsi il ragazzo africano.
-Aspetta – urlai –mi puoi fare un favore? –
-Che vuoi?- mi disse –ho fretta – era già sul motorino, pronto ad andare via.
-Puoi darmi un passaggio fino ai Quattro Canti? –
-Ok, va bene. Ma sali e andiamo. –
L’uomo mi lasciò ai Quattro Canti e prima che potessi salutarlo e ringraziarlo, imboccando via Maqueda, sparì col suo motorino. Mi faceva pena, “Chissà che vita farà..” in realtà, immaginavo benissimo come viveva, passava tutte le notte a guardia di un banchetto di frutta, per pochi soldi.
Dovevo raggiungere la casa di Tommasini, prima della persona che lo aveva lasciato in quello stato sulla foce dell’Oreto. Ero sicuro, che se già non l’aveva fatto, sarebbe passato dall’appartamento dell’ingegnere, “Sono sicuro che vuole bruciare tutto come ha fatto con l’appartamento di De Felice”.
Il vicolo era buio l’unica lampada che lo illuminava era fulminata, il portone era aperto, entrai e salii le scale, ripercorrevo quei gradoni tozzi per la terza volta, e per la terza volta mi ritrovai di fronte la porta dell’appartamento. La serratura era forzata, emise uno scricchiolio quando la spinsi. Dentro non si vedeva nulla, aspettai qualche secondo per abituare i miei occhi a quella scarsità di luce e avanzai cauto, mi diressi verso la scrivania. Avevo la sensazione di non essere solo, avvertivo la presenza di qualcuno, ne sentivo quasi il respiro, il mio cuore andava a mille. Dovevo accendere la lampada sul tavolo, anche se non ero sicuro che fosse una buona idea. Ormai ero ad un passo dalla scrivania, quando con un piede urtai un bidone, dal quale schizzò fuori un liquido che macchiò i miei pantaloni. Toccai la macchia, le dita si impregnarono del liquido, le odorai. Non c’era dubbio era benzina, avevo adesso la certezza che non ero solo. Misi una mano sulla scrivania, era tutta bagnata, i cassetti erano aperti e il tutto era cosparso di benzina. Prima di tirare fuori la mano dal cassetto, mi venne spontaneo prendere quella che doveva essere una foto, la misi in tasca. Volevo salvare più cose, ma non c’era tempo, era chiaro che non ero solo, il pericolo era altissimo. Mi allontanai dalla scrivania e camminando rasente alle pareti cercavo di dirigermi verso l’uscita, quando ricevetti una spallata che mi fece cadere dentro una stanza. Mi alzai subito, ma non feci in tempo ad uscire che mi ritrovai chiuso dentro. Ero finito nella stanza da letto dell’ingegnere. Tentai di aprire, ma era stata chiusa a chiave, così cominciai tirare calci e urla.
-Fammi uscire! - urlai con tutta la mia forza.
- Morirai pure tu – questa fu la risposta agghiacciante che mi giunse dall’altra parte.
Quella voce sembrava un rantolo, il sibilo di un serpente. Mi fece rabbrividire. Mi accorsi che da sotto la porta stava scorrendo, quella che doveva essere benzina. Si stava espandendo per tutta la stanza, i tappetini si stavano imbevendo di benzina, così pure la carta da parati, essendo la parete sprovvista di zoccoletto, si stava anche lei imbevendo. Mi allontanai dalla porta, aprii la finestra che si trovava nella posizione opposta. La finestra aveva alla base un cornicione con uno spessore di cinque centimetri, era pericolosissimo camminarci sopra. Mi rivolsi di nuovo verso la porta, l’unica cosa era darle una spallata con tutta la forza che avevo. Mi ero preparato prendendo una rincorsa, quando da sotto la porta si levò una lingua di fuoco che divampò su tutti i mobili della camera. Ora non avevo altra scelta, mi tolsi il giubbotto, il maglione e le scarpe, misi tutto dentro la fodera di un cuscino del letto dell’ingegnere e buttai tutto giù dalla finestra, mi arrampicai sul cornicione e comincia ad avanzare verso il terrazzo della cucina. Ci impiegai una vita, strisciavo il viso e il petto sul muro, avanzavo lentamente strisciando i piedi sul cornicione, il vento gelido completava l’opera. Riuscii a raggiungere la terrazza. La porta finestra che comunicava con la cucina era chiusa, presi un vaso e lo schiantai sul vetro che si frantumò. La casa era avvolta dalle fiamme, corsi verso l’uscita.
Finalmente ero per strada, dell’uomo nessuna traccia. Era scomparso. Andai a riprendere i vestiti che avevo lanciato. Mi rivestii mentre sentivo da lontano le sirene dei pompieri che stavano accorrendo per spegnere l’incendio. Per fortuna ero ancora tutto intero, mi sistemai e mi diressi verso casa. Mi accorsi che nella tasca del giubbotto c’era ancora l’unica cosa ormai che apparteneva all’ingegnere Tommasini, quella foto che ero riuscito a salvare dalle fiamme.

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