Storie di donne siciliane..
Dalla Vecchia dell'Aceto a Giulia Florio
di Rosanna Zerilli
Giovanna Bonanno, la Vecchia dell’aceto, 1713-1789
L’azione si
svolge nei quartieri storici e popolari di Palermo, Capo, Panneria,
Sant’Agostino, Vucciria, nella seconda
metà del Settecento, sotto re Ferdinando IV di Borbone. Il Regno di Sicilia,
prima che la grande paura della Rivoluzione investisse ogni cosa, è fra i più
illuminati e avanzati d’Europa, ma per cambiare realmente il più antico e più
grande stato italiano ci sarebbe voluto e ci vuole ancora più tempo.
Ai vertici
dell’isola ci sono stati due illustri esponenti del riformismo napoletano. Domenico
Caracciolo marchese di Villamaina è stato Viceré di Sicilia dal 1781 al 1786 e
il Tribunale della Santa Inquisizione è stato abolito nel 1782. Gli succede fino
al 1795 Francesco D’Aquino, principe di
Caramanico. Le classi dirigenti
siciliane sono investite dal vento del riformismo illuminista, che coinvolge
almeno una buona parte dell’Intellighenzia isolana, ma non certamente il popolo minuto,
che rimane legato, come del resto gran parte della sua aristocrazia, alle
tradizioni e alle convinzioni di sempre, e soprattutto, per quel che riguarda
il popolino, alla difficile arte
dell’arrangiarsi e del sopravvivere.
I fatti di cui fu protagonista principale Giovanna
Bonanno si svolsero a Palermo fra il
1788 e il 1789. Giovanna è vedova, ha 75
anni e vive mendicando, almeno così si presenta ai giudici. Venne accusata,
processata e condannata a morte per sei omicidi che ella stessa serenamente
ricostruisce. Si era accorta che un certo liquido chiamato “aceto”, venduto da un aromatario in via Gioja
mia, per combattere i pidocchi , era efficacissimo per provocare, se
ingerito col cibo o con una bevanda,
morte in pochi giorni senza lasciare alcuna traccia sospetta. Le nasce
un’idea che avrà subito successo: venderlo in boccette di vetro ad amiche o
conoscenti o semplici clienti, quasi tutte donne delle strade, vicoli e cortili
della sua zona fra la Panneria e la Vucciria. che avessero problemi d’amore da risolvere radicalmente
eliminando l’invadente consorte. Direttamente o tramite tre buone comari la Vecchia dell’aceto crea una fiorente
rete commerciale, molte sono le mogli che non sopportano più i loro mariti in
vista di più felici connubi. L’attività sarà interrotta quando la madre
dell’ultima vittima sospetta qualcosa e si rivolge al Capitano Giustiziere
della città. Parte l’inchiesta del Regio Procuratore Fiscale che porterà
Giovanna e le sue complici dinanzi alla Regia Corte Capitaniale e
successivamente, il 30 luglio 1789, alla forca edificata a Piazza Vigliena. La
Bonanno non è una maga, come pensano molti del suo ambiente, ma
un’avvelenatrice, come deciderà il tribunale, e questa sentenza è al passo con
i tempi nuovi, ma la pratica della vecchia non è certamente nuova , ma antica
come il mondo. Gli atti processuali, più di mille e cinquecento fogli, sono conservati presso l’Archivio di Stato di
Palermo, Miscellania Archivistica II, vol. 32.
Spostiamoci
in uno dei momenti veramente felici
della nostra Palermo. Siamo in
età umbertina e in piena Belle époque, siamo nell’età dei Florio, Ignazio
senior fino al 1891, Ignazio junior dopo quella data, ed è facile incontrare tre dame dal fascino e dal
prestigio straordinario, tre esponenti dell’alta aristocrazia palermitana che
saranno segnate da destini abbastanza diversi, ma degni di nota, Giulia Florio,
Alessandra di Rudinì, Giulia Trigona.
Giulia Florio, principessa di Trabia,
1870-1947
Protagonista,
con la cognata Franca, Franca Jacona di San Giuliano, 1873-1950, moglie di
Ignazio Florio j., della Belle époque
palermitana, Giulia sposa, nel 1885,
a quindici anni, il principe
Pietro Lanza di Trabia, di otto anni più grande di lei, portando in dote la
cospicua somma di quattro milioni di lire, dote che aveva ben rimpinguato le
esauste finanze di casa Trabia, il cui illustre casato non era accompagnato da
un patrimonio di adeguata consistenza. Con questo matrimonio, la più
prestigiosa famiglia borghese siciliana, Florio, si imparentava con la più alta
famiglia aristocratica dell’isola, Lanza di Trabia, Butera, Branciforti. L’ingresso in quella famiglia di Giulia
Florio, che oltre al denaro possedeva una figura gentile ed aggraziata, aveva
consentito di restaurare e riaprire le splendide sale di Palazzo Butera, che nel periodo della Belle Epoque palermitana sarebbero state teatro della vita
mondana e culturale della città. Si
racconta che il Kaiser Guglielmo II dopo una colazione a Palazzo Butera servita
su piatti d’oro, abbia detto che sperava di poter ricambiare in Germania l’ospitalità
ricevuta, se non con la stessa sontuosità, almeno con la stessa cordialità. Giulia
avrà sei figli, due dei quali, Ignazio e Manfredi, andranno incontro ad
un tragico destino: entrambi moriranno durante la Grande Guerra, Ignazio a
ventisette anni nel 1917 e Manfredi a
ventiquattro nel 1918.
Alessandra di Rudinì
Alessandra di Rudinì
Nasce il 5 ottobre 1876
a Napoli. Accompagna il padre, Antonio Starrabba di Rudinì (1839-1908), uomo
politico di spicco, sindaco di Palermo dal 1863 al 1866 e poi prefetto , per
due volte presidente del consiglio dei ministri,nel 1891-92 e nel 1896-98, in viaggi all'estero, dove viene corteggiata
anche dal granduca Sergio, della famiglia degli zar russi. A Firenze conosce il
marchese di Riparbella Marcello Carlotti, di una famiglia originaria del lago
da Garda. Si sposano nell’ottobre 1894 .
Ben presto però il marito si ammala di tubercolosi e muore la mattina del
29 aprile 1900. Nel 1903 Alessandrina conosce a Milano D'Annunzio e diventò per
tre anni la sua compagna, con la forte disapprovazione di suo padre. Venne ribattezzata Nike dal poeta abruzzese e
alla fine dello stesso anno i due si donarono . reciprocamente il corpo,
compreso il "cervello meraviglioso" di Gabriele, con un atto
notarile. Si ammalò gravemente all'utero nel 1906 e subì a Firenze tre
interventi chirurgici. Ben presto la passione di D'Annunzio verso di lei
termina. Nel 1904, a 41 anni, d'Annunzio aveva conosciuto
la ventisettenne marchesa Alessandra
Starrabba di Rudinì vedova Carlotti nonché figlia prediletta dell'ex presidente
del Consiglio dei ministri ed ex sindaco di Palermo marchese Antonio. Il poeta
prese, ricambiato, una vera e propria cotta. Narrano le cronache che la
nobildonna, dal carattere forte e di sicula tenacia, riuscì a placare
l'esuberanza di quello che ormai era considerato un simbolo nazionale.
Alessandra fu una vera amante e pretese l'esclusiva. D'Annunzio alla
"Capponcina" dissipò tutto: energie fisiche ed economiche. Assecondò
ogni desiderio dell'amata all'interno di una cornice fatta di lusso e
spensieratezza. In quattro anni di intensa relazione la di Rudinì, gelosa ed
esigente, volle Gabriele tutto per sé, non disposta nemmeno a dividerlo con
l'arte. Non a caso la produzione artistica dannunziana, in quel periodo, si
assottigliò di gran lunga. La critica sentenziò che si era spenta la vena
poetica «del grande Genio latino». Per non parlare dei disagi degli editori
costretti ad esosi anticipi in danaro in attesa di futuri improbabili guadagni
per lavori commissionati e non consegnati nei termini contrattuali. L'esponente
di una nota famiglia palermitana era riuscita laddove altre avevano fallito:
impedire in costanza di un rapporto d'amore che il più illustre tombeur de
femmes d'Italia potesse concedersi «distrazioni». Emerse, in controtendenza con
un ben noto e personalissimo costume, che il poeta non solo non trovò mai
ispirazione in Alessandra Di Rudinì, ma non le dedicò alcuna sua opera. Insomma
amore totale e impotenza artistica. Fino a quando poteva durare «l'ibernazione»
del vate? Come tutte le cose umane anche il rapporto con la bella
Alessandra finì. D'Annunzio volse lo sguardo verso altri lidi (aveva già messo
gli occhi addosso ad una nobildonna fiorentina, la contessa Giuseppina Mancini)
e la marchesa non riuscì a farsene una ragione. Alla fine si arrese e decise di dire
addio a quell'amore, ai due figli e alla mondanità. Il 28 ottobre 1911, a 35 anni, la marchesa
Alessandrina Starabba Di Rudinì, dopo un viaggio a Lourdes, entra nel Carmelo
di Paray-le-Monial, in Francia. Tra il gennaio e il maggio dell'anno successivo
avverranno le sue vestizione, professione e velazione, come Suor Maria di Gesù.
Nel 1916 si ammalano e muoiono entrambi i suoi figli. L'anno successivo viene
eletta Priora di Paray. Impegnò la residua parte del patrimonio familiare nella
fondazione del Carmelo del Reposoir, in Alta Savoia. Nell'inverno del 1930
viene sottoposta ad altri quattro interventi chirurgici e il 2 gennaio 1931, a
56 anni, muore presso il Reposoir.
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La Rudinì Suor Maria di Gesù |
Giulia Tasca di Cutò,
contessa Trigona di Sant’Elia, 1877-1911
Nata Mastrogiovanni Tasca di Cutò,
dama di corte della regina Elena, perla dei salotti aristocratici di Palermo,
ammirata signora dei ricevimenti dei Florio, deve la notorietà alla sua tragica
e scandalosa fine.
Ultima di quattro sorelle (che Matilde Serao
descrisse pensando «che ciascuna di esse meritasse una corona sovrana»), appena
fatto l’ingresso in società, sposò, all’età di diciotto anni, il conte Romualdo
Trigona dei principi di Sant’Elia (1870-1929), con il quale ebbe due figlie e
un buon rapporto coniugale per una decina d’anni. Poi patisce una lunga
malattia; il marito intraprende una relazione con un’attrice della compagnia di
Scarpetta, e si dedicherà alla politica diventando sindaco di Palermo dal
giugno 1909 al giugno 1910. Nell’agosto 1909, durante un ricevimento dei Florio a
Villa Igiea, Giulia conosce il barone Vincenzo Paternò del Cugno, aitante
tenente di cavalleria, di due anni più giovane di lei. È un amore tragico e
travolgente. Dopo alcuni mesi, dopo quasi quotidiani incontri nei salotti
cittadini, i due compiono una serie di viaggi durante i quali la passione ha
libera e totale cittadinanza. Ma il Paternò non era soltanto un brillante
ufficiale e bel cavallerizzo che faceva innamorare le donne, o un «farfallone
attratto dalla vivida luce della lanterna dei Florio», come lo definì Tomasi di
Lampedusa; era anche un violento, che viveva di debiti e di espedienti,
dominato dalla passione per i cavalli e per il gioco. Nonostante la sua
provenienza da nobile famiglia, le cui risorse finanziarie erano ormai
insufficienti, a causa della improduttività delle miniere di zolfo che
possedeva, egli era sempre alla ricerca di soldi. E più volte chiede somme
dalla stessa Giulia, cosa che, nel processo che lo vide imputato di omicidio,
gli valse l’accusa di sfruttatore.
Inoltre, la sua gelosia procurava sempre più frequenti fratture nel rapporto
con l’amante. Rapporto che si manifestava in forme sempre più evidenti e
scandalose, tanto da far decidere i coniugi Trigona a separarsi legalmente
L’epilogo di questa tormentata vicenda, che ormai correva di bocca in bocca dai salotti palermitani alla corte romana, si svolge nel marzo 1911, mentre Giulia e suo marito si trovavano al Quirinale, convocati dalla regina Elena per il loro servizio a corte e forse per tentare una riconciliazione. Vincenzo Paternò non è però disposto a rinunciare al suo amore. Invita Giulia ad un ultimo incontro presso un albergo romano, la uccide con numerose coltellate e cerca la morte con un colpo di pistola. Sopravviverà al tentato suicidio,subirà un processo e per l'assassinio dell'amante sarò condannato all'ergastolo.
L’epilogo di questa tormentata vicenda, che ormai correva di bocca in bocca dai salotti palermitani alla corte romana, si svolge nel marzo 1911, mentre Giulia e suo marito si trovavano al Quirinale, convocati dalla regina Elena per il loro servizio a corte e forse per tentare una riconciliazione. Vincenzo Paternò non è però disposto a rinunciare al suo amore. Invita Giulia ad un ultimo incontro presso un albergo romano, la uccide con numerose coltellate e cerca la morte con un colpo di pistola. Sopravviverà al tentato suicidio,subirà un processo e per l'assassinio dell'amante sarò condannato all'ergastolo.
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Reperti dell'omicidio di Giulia Trigona, conservati presso il museo criminologico di Roma |
Rosanna Zerilli