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domenica 21 gennaio 2018

Storie di donne siciliane


                   Storie di donne siciliane.. 

       Dalla Vecchia dell'Aceto a Giulia Florio

                              di Rosanna Zerilli




Giovanna Bonanno, la Vecchia dell’aceto, 1713-1789



L’azione si svolge nei quartieri storici e popolari di Palermo, Capo, Panneria, Sant’Agostino, Vucciria,   nella seconda metà del Settecento, sotto re Ferdinando IV di Borbone. Il Regno di Sicilia, prima che la grande paura della Rivoluzione investisse ogni cosa, è fra i più illuminati e avanzati d’Europa, ma per cambiare realmente il più antico e più grande stato italiano ci sarebbe voluto e ci vuole ancora più tempo.
Ai vertici dell’isola ci sono stati due illustri esponenti del riformismo napoletano. Domenico Caracciolo marchese di Villamaina è stato Viceré di Sicilia dal 1781 al 1786 e il Tribunale della Santa Inquisizione è stato abolito nel 1782. Gli succede fino al 1795 Francesco D’Aquino,  principe di Caramanico.  Le classi dirigenti siciliane sono investite dal vento del riformismo illuminista, che coinvolge almeno una buona parte dell’Intellighenzia  isolana, ma non certamente il popolo minuto, che rimane legato, come del resto gran parte della sua aristocrazia, alle tradizioni e alle convinzioni di sempre, e soprattutto, per quel che riguarda il popolino,  alla difficile arte dell’arrangiarsi e del sopravvivere.
I fatti di cui fu protagonista principale Giovanna Bonanno si svolsero a Palermo fra  il 1788 e il  1789. Giovanna è vedova, ha 75 anni e vive mendicando, almeno così si presenta ai giudici. Venne accusata, processata e condannata a morte per sei omicidi che ella stessa serenamente ricostruisce. Si era accorta che un certo liquido chiamato “aceto”,  venduto da un aromatario  in via Gioja mia, per combattere i pidocchi , era efficacissimo per provocare, se ingerito col cibo o con una bevanda,  morte in pochi giorni senza lasciare alcuna traccia sospetta. Le nasce un’idea che avrà subito successo: venderlo in boccette di vetro ad amiche o conoscenti o semplici clienti, quasi tutte donne delle strade, vicoli e cortili della sua zona  fra la Panneria e la Vucciria. che avessero problemi d’amore da risolvere radicalmente eliminando l’invadente consorte. Direttamente o tramite tre buone comari la Vecchia dell’aceto crea una fiorente rete commerciale, molte sono le mogli che non sopportano più i loro mariti in vista di più felici connubi. L’attività sarà interrotta quando la madre dell’ultima vittima sospetta qualcosa e si rivolge al Capitano Giustiziere della città. Parte l’inchiesta del Regio Procuratore Fiscale che porterà Giovanna e le sue complici dinanzi alla Regia Corte Capitaniale e successivamente, il 30 luglio 1789, alla forca edificata a Piazza Vigliena. La Bonanno non è una maga, come pensano molti del suo ambiente, ma un’avvelenatrice, come deciderà il tribunale, e questa sentenza è al passo con i tempi nuovi, ma la pratica della vecchia non è certamente nuova , ma antica come il mondo. Gli atti processuali, più di mille e cinquecento fogli,  sono conservati presso l’Archivio di Stato di Palermo, Miscellania Archivistica II, vol. 32. 







Spostiamoci in uno dei momenti veramente felici  della nostra Palermo.  Siamo in età umbertina e in piena Belle époque, siamo nell’età dei Florio, Ignazio senior fino al 1891, Ignazio junior dopo quella data,  ed è facile incontrare tre dame dal fascino e dal prestigio straordinario, tre esponenti dell’alta aristocrazia palermitana che saranno segnate da destini abbastanza diversi, ma degni di nota, Giulia Florio, Alessandra di Rudinì,  Giulia Trigona.


Giulia Florio, principessa di Trabia, 1870-1947


Protagonista, con la cognata Franca, Franca Jacona di San Giuliano, 1873-1950, moglie di Ignazio Florio j.,  della Belle époque palermitana, Giulia sposa, nel 1885,  a quindici anni,  il principe Pietro Lanza di Trabia, di otto anni più grande di lei, portando in dote la cospicua somma di quattro milioni di lire, dote che aveva ben rimpinguato le esauste finanze di casa Trabia, il cui illustre casato non era accompagnato da un patrimonio di adeguata consistenza. Con questo matrimonio, la più prestigiosa famiglia borghese siciliana, Florio, si imparentava con la più alta famiglia aristocratica dell’isola, Lanza di Trabia, Butera, Branciforti.  L’ingresso in quella famiglia di Giulia Florio, che oltre al denaro possedeva una figura gentile ed aggraziata, aveva consentito di restaurare e riaprire le splendide sale di Palazzo Butera,  che nel periodo della Belle Epoque  palermitana sarebbero state teatro della vita mondana e culturale della città. Si racconta che il Kaiser Guglielmo II dopo una colazione a Palazzo Butera servita su piatti d’oro, abbia detto che sperava di poter ricambiare in Germania l’ospitalità ricevuta, se non con la stessa sontuosità, almeno con la stessa cordialità. Giulia   avrà sei figli, due dei quali, Ignazio e Manfredi, andranno incontro ad un tragico destino: entrambi moriranno durante la Grande Guerra, Ignazio a ventisette anni nel 1917 e Manfredi  a ventiquattro   nel 1918.

Alessandra di Rudinì





Nasce il 5 ottobre 1876 a Napoli. Accompagna il padre, Antonio Starrabba di Rudinì (1839-1908), uomo politico di spicco, sindaco di Palermo dal 1863 al 1866 e poi prefetto , per due volte presidente del consiglio dei ministri,nel 1891-92 e nel 1896-98,  in viaggi all'estero, dove viene corteggiata anche dal granduca Sergio, della famiglia degli zar russi. A Firenze conosce il marchese di Riparbella Marcello Carlotti, di una famiglia originaria del lago da Garda. Si sposano nell’ottobre 1894  .  Ben presto però il marito si ammala di tubercolosi e muore la mattina del 29 aprile 1900. Nel 1903 Alessandrina conosce a Milano D'Annunzio e diventò per tre anni la sua compagna, con la forte disapprovazione di suo padre.  Venne ribattezzata Nike dal poeta abruzzese e alla fine dello stesso anno i due si donarono . reciprocamente il corpo, compreso il "cervello meraviglioso" di Gabriele, con un atto notarile. Si ammalò gravemente all'utero nel 1906 e subì a Firenze tre interventi chirurgici. Ben presto la passione di D'Annunzio verso di lei termina. Nel 1904, a 41 anni, d'Annunzio aveva conosciuto  la ventisettenne marchesa Alessandra Starrabba di Rudinì vedova Carlotti nonché figlia prediletta dell'ex presidente del Consiglio dei ministri ed ex sindaco di Palermo marchese Antonio. Il poeta prese, ricambiato, una vera e propria cotta. Narrano le cronache che la nobildonna, dal carattere forte e di sicula tenacia, riuscì a placare l'esuberanza di quello che ormai era considerato un simbolo nazionale. Alessandra fu una vera amante e pretese l'esclusiva. D'Annunzio alla "Capponcina" dissipò tutto: energie fisiche ed economiche. Assecondò ogni desiderio dell'amata all'interno di una cornice fatta di lusso e spensieratezza. In quattro anni di intensa relazione la di Rudinì, gelosa ed esigente, volle Gabriele tutto per sé, non disposta nemmeno a dividerlo con l'arte. Non a caso la produzione artistica dannunziana, in quel periodo, si assottigliò di gran lunga. La critica sentenziò che si era spenta la vena poetica «del grande Genio latino». Per non parlare dei disagi degli editori costretti ad esosi anticipi in danaro in attesa di futuri improbabili guadagni per lavori commissionati e non consegnati nei termini contrattuali. L'esponente di una nota famiglia palermitana era riuscita laddove altre avevano fallito: impedire in costanza di un rapporto d'amore che il più illustre tombeur de femmes d'Italia potesse concedersi «distrazioni». Emerse, in controtendenza con un ben noto e personalissimo costume, che il poeta non solo non trovò mai ispirazione in Alessandra Di Rudinì, ma non le dedicò alcuna sua opera. Insomma amore totale e impotenza artistica. Fino a quando poteva durare «l'ibernazione» del vate? Come tutte le cose umane anche il rapporto con la bella Alessandra finì. D'Annunzio volse lo sguardo verso altri lidi (aveva già messo gli occhi addosso ad una nobildonna fiorentina, la contessa Giuseppina Mancini) e la marchesa non riuscì a farsene una  ragione. Alla fine si arrese e decise di dire addio a quell'amore, ai due figli e alla mondanità. Il 28 ottobre 1911, a 35 anni, la marchesa Alessandrina Starabba Di Rudinì, dopo un viaggio a Lourdes, entra nel Carmelo di Paray-le-Monial, in Francia. Tra il gennaio e il maggio dell'anno successivo avverranno le sue vestizione, professione e velazione, come Suor Maria di Gesù. Nel 1916 si ammalano e muoiono entrambi i suoi figli. L'anno successivo viene eletta Priora di Paray. Impegnò la residua parte del patrimonio familiare nella fondazione del Carmelo del Reposoir, in Alta Savoia. Nell'inverno del 1930 viene sottoposta ad altri quattro interventi chirurgici e il 2 gennaio 1931, a 56 anni, muore presso il Reposoir.

La Rudinì Suor Maria di Gesù



                 Giulia  Tasca di Cutò,  contessa Trigona di                                 Sant’Elia, 1877-1911






Nata Mastrogiovanni Tasca di Cutò, dama di corte della regina Elena, perla dei salotti aristocratici di Palermo, ammirata signora dei ricevimenti dei Florio, deve la notorietà alla sua tragica e scandalosa fine.

Ultima di quattro sorelle (che Matilde Serao descrisse pensando «che ciascuna di esse meritasse una corona sovrana»), appena fatto l’ingresso in società, sposò, all’età di diciotto anni, il conte Romualdo Trigona dei principi di Sant’Elia (1870-1929), con il quale ebbe due figlie e un buon rapporto coniugale per una decina d’anni. Poi patisce una lunga malattia; il marito intraprende una relazione con un’attrice della compagnia di Scarpetta, e si dedicherà alla politica diventando sindaco di Palermo dal giugno 1909 al giugno 1910. Nell’agosto 1909, durante un ricevimento dei Florio a Villa Igiea, Giulia conosce il barone Vincenzo Paternò del Cugno, aitante tenente di cavalleria, di due anni più giovane di lei. È un amore tragico e travolgente. Dopo alcuni mesi, dopo quasi quotidiani incontri nei salotti cittadini, i due compiono una serie di viaggi durante i quali la passione ha libera e totale cittadinanza. Ma il Paternò non era soltanto un brillante ufficiale e bel cavallerizzo che faceva innamorare le donne, o un «farfallone attratto dalla vivida luce della lanterna dei Florio», come lo definì Tomasi di Lampedusa; era anche un violento, che viveva di debiti e di espedienti, dominato dalla passione per i cavalli e per il gioco. Nonostante la sua provenienza da nobile famiglia, le cui risorse finanziarie erano ormai insufficienti, a causa della improduttività delle miniere di zolfo che possedeva, egli era sempre alla ricerca di soldi. E più volte chiede somme dalla stessa Giulia, cosa che, nel processo che lo vide imputato di omicidio, gli valse l’accusa di sfruttatore. Inoltre, la sua gelosia procurava sempre più frequenti fratture nel rapporto con l’amante. Rapporto che si manifestava in forme sempre più evidenti e scandalose, tanto da far decidere i coniugi Trigona a separarsi legalmente
L’epilogo di questa tormentata vicenda, che ormai correva di bocca in bocca dai salotti palermitani alla corte romana, si svolge nel marzo 1911, mentre Giulia e suo marito si trovavano al Quirinale, convocati dalla regina Elena per il loro servizio a corte e forse per tentare una riconciliazione. Vincenzo Paternò non è però disposto a rinunciare al suo amore. Invita Giulia ad un ultimo incontro presso un albergo romano, la uccide con numerose coltellate e cerca la morte con un colpo di pistola. Sopravviverà al tentato suicidio,subirà un processo e per l'assassinio dell'amante sarò condannato all'ergastolo.


Reperti dell'omicidio di Giulia Trigona, conservati presso il museo criminologico di Roma

                                                                                               Rosanna Zerilli